L’orrore e la vergogna,
la paura e la speranza
Le immagini che ci giungono da Bucha, da Irpin e da altre città ucraine sono una pugnalata al cuore. Lo scempio delle centinaia di cadaveri di donne e uomini torturati e brutalmente uccisi, sepolti in fosse comuni oppure abbandonati in strada in mezzo alle macerie e ai rifiuti non è solo lo specchio di una guerra barbarica condotta contro un intero popolo; è un atto di accusa potente e doloroso contro l’abiezione morale a cui sono giunti l’esercito russo, il leader autoritario che governa l’impero in espansione e l’apparato di dominio che lo assiste. Vergogna. È la parola che si insinua in noi dopo l’orrore del primo impatto. Senza voler fare confronti impropri di fronte a situazioni e a scenari molto differenti, non credo sia inadeguato riprendere il termine nell’accezione e con la profondità ineguagliabile con cui lo usa Primo Levi in “Il disgelo”, il primo capitolo de “La tregua”, riferendolo ai “quattro giovani soldati a cavallo” che improvvisamente compaiono a liberare Monowitz davanti a una desolante scena di morte: “apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.” Questo è il senso di dolorosa impotenza e di muta ribellione che i massacri di Ucraina, come altri differenti massacri, suscitano in noi testimoni silenziosi e sgomenti. Uno stato d’animo complesso, che Levi riprende e analizza a fondo nel terzo capitolo de “I sommersi e i salvati”, intitolato appunto “La vergogna”. Ma vergogna è anche il sentimento di disonore, di umiliazione che i torturatori assassini dovrebbero provare dopo i loro crimini, e che invece sicuramente non avvertono essendosi con la loro disumanità posti fuori dal consesso del mondo civile.
Ma pur nella notte di questi mesi di guerra e davanti agli scenari inquietanti che si profilano all’orizzonte, un barlume di luce ci è giunto da Torino mercoledì 6 aprile, lungo la strada tra la Stazione di Porta Nuova e la Comunità Ebraica, dove tante persone e soprattutto tanti ragazzi hanno sfilato in silenzio durante la Marcia Emanuele Artom accanto ai cartelli coi nomi del Lager europei, e poi proprio lì, in Piazzetta Primo Levi davanti alla Sinagoga, dove gli alunni delle Scuole Medie Artom (la Scuola Ebraica di Torino), Calamandrei, Foscolo, Tommaseo e del Liceo Alfieri hanno letto e commentato con partecipazione personale e forte tensione verso il domani brani significativi dai Diari dello storico e partigiano torinese legati al tema “dalla paura alla speranza”. La paura è naturale, è parte ineliminabile di noi, è l’angoscia continua davanti al presente e al futuro, particolarmente forte durante una lotta di Resistenza per la libertà, ieri in Italia di fronte all’invasore nazista oggi in Ucraina contro l’occupante russo. Ma è compagna abituale anche dei nostri ragazzi ai nostri giorni, davanti alle continue difficoltà che la vita propone loro, non certo lievi nei due anni di pandemia che con smarrimento e coraggio hanno attraversato. Eppure, oltre il disagio e l’incertezza della paura, nelle loro riflessioni e nei loro propositi compare comunque la volontà di agire per costruire qualcosa di migliore nella vita che hanno davanti, una forza fiduciosa basata su principi e su valori di giustizia, di libertà respirati anche nella lettura delle pagine dei Diari. La loro energia interiore si apre alla concreta speranza di poter comunque guardare al di là del buio di oggi. Della loro resistenza interiore, di questa luce oggi abbiamo più che mai bisogno.
David Sorani
(12 aprile 2022)