Micha Bar-Am, il fotografo
che ha raccontato Israele

Ha fotografato la vita del kibbutz e la nascita dello Stato; il processo Eichmann e il primo soldato israeliano davanti al Muro Occidentale; gli scontri fra israeliani e palestinesi; la fatica e la speranza degli olim; la violenza che nel tempo ha sconvolto il Medio Oriente. Oggi Micha Bar-Am, il più grande fotoreporter israeliano, ha 91 anni e custodisce nella cantina di casa un patrimonio d’immagini che rappresenta la memoria storica del Paese – oltre mezzo milione di negativi che raccontano la traiettoria di Israele negli ultimi settant’anni e gli affetti del suo privato.
Questo tesoro arriva sul grande schermo grazie al filmaker israeliano Ran Tal in uno dei lavori più affascinanti proiettati all’ultima Berlinale. Intitolato 1341 Framim Mehamatzlema shel Micha Bar-Am – 1341 Frames of Love and War, il film porta in scena una lunga serie di foto di Micha Bar-Am e la accompagna alle parole dello stesso fotografo che s’interroga su quelle immagini, sul significato della fotografia in tempo di guerra e sull’evoluzione di Israele.
“La sfida di realizzare un film basato soltanto sulle fotografie è parte della mia attrazione per l’archivio di Bar-Am”, spiega il regista. “La tensione fra immobilità e movimento, suono e immagini, riflessioni e memorie di oggi fornisce al film infiniti livelli e connessioni”.
Il risultato è uno straordinario ritratto d’artista e una meditazione sulla memoria, la violenza, l’identità. Una riflessione sul rapporto con il potere, l’inestricabile legame fra orrore e bellezza e l’enorme prezzo che si paga a documentare l’atrocità tutti temi che la guerra in Ucraina e l’ondata sconvolgente di immagini che da lì arrivano rendono di drammatica attualità.
Micha Bar-Am, che vive a Ramat Gan, è oggi il più anziano sopravvissuto del leggendario gruppo dei corrispondenti Magnum di cui hanno fatto parte Robert Capa e Henri Cartier-Bresson. Ha pubblicato le sue immagini sui maggiori giornali internazionali – il New York Times per cui è stato corrispondente da Israele dal 1968 al 1992, Time Magazine, Stern e Paris Match. Fondatore insieme a Cornell Capa, fratello di Robert, dell’International Center of Photography a New York, fino al 1993 ha diretto la sezione di fotografia al Tel Aviv Museum of Art e pubblicato libri iconici tra cui Portrait of Israel (1970) e Israel: A Photobiography (1998).
Alla luce di questa folgorante carriera, colpisce il fatto che sia approdato alla fotografia per un gioco del caso. Nato a Berlino ed emigrato a sei anni in Palestina con i genitori, Michael Anguli (Bar-Am è il nome in codice che gli rimane dal periodo nel Palmach) lavora come fabbro, guardia, tornitore. Tutto inizia grazie a un amico che in kibbutz gli presta una Leica ricevuta in regalo. La macchina, compatta e maneggevole, gli apre un orizzonte inaspettato.
Impara a fotografare da autodidatta e il fine settimana espone il suo lavoro sul tabellone degli annunci in mensa. Finché qualcuno lo nota e inizia a pubblicare. Dopo il primo libro intitolato Across Sinai (1957), lavora per la rivista dell’esercito Bamachaneh e il resto è storia.
Divenuto celebre come fotografo di guerra, Bar-Am non ha mai pensato a se stesso in questi termini. “Lavorando sulla scena di un’azione, ho adottato il motto di Robert Capa ‘Se le tue foto non sono abbastanza buone è perché non sei abbastanza vicino’. In retrospettiva, vorrei aggiungere un corollario: se sei troppo vicino, perdi la prospettiva”, dice. “È quasi impossibile – continua essere al tempo stesso parte di un evento e osservatore, testimone, interprete. È uno sforzo che da’ molte gratificazioni ed eguali grandi frustrazioni”. È questa dialettica a rendere le sue immagini uniche. In ogni conflitto, il suo obiettivo si punta sulla dimensione dell’esperienza umana. Uno degli esempi più famosi è l’immagine scattata durante la Guerra del Golfo nel 1991 in cui una madre e due figli sono rannicchiati in un rifugio. Tutti tre indossano la maschera antigas e la donna ha fra le braccia il gatto di casa. È una scena in cui la delicatezza dei sentimenti e la violenza del conflitto entrano in un dialogo muto con il fotografo. La famiglia ritratta è quella di Bar-Am. La guerra è in casa quel dolore è il suo ed è quello di un intero popolo.

Proprio quest’umanità rende ancora più intollerabili certi scatti di guerra. A turbare la sofferenza che tracima e la loro spaventosa ambiguità. Come scrive Susan Sontag in Regarding the Pain of Others (2002), “trovare bellezza nelle foto di guerra suona crudele”. Eppure, “il paesaggio della devastazione è pur sempre un paesaggio” e “c’è bellezza nelle rovine”.
“Talvolta le immagini più spaventose sono estetiche. Goya ha riconosciuto l’affinità tra l’arte e l’atrocità della guerra”, conferma Bar-Am. “Non ho fotografato zone in cui c’era la guerra”, spiega nel film. “Ho fotografato quello che stava succedendo qui. La fotografia in guerra non è etica”. La sola ragione per farlo è il futuro, conclude. “Allora avevo la speranza che si potesse fare del mondo un posto migliore. Non lo penso più. Posso continuare a pensarlo, ma non a combattere con la macchina fotografica”. Ormai Bar-Am fotografa solo i nipoti che crescono e lavora alla digitalizzazione del suo archivio. È un finale dolceamaro un’epoca si chiude e il futuro malgrado tutto arriva.

Daniela Gross, Pagine Ebraiche Aprile 2022