Periscopio – Libertà
Dicemmo, alla fine della scorsa puntata, a proposito dei due versi del quinto Canto del Paradiso, “uomini siate e non pecore matte/, sì che ‘l giudeo di voi tra voi non rida!” (poste in epigrafe, dal secondo all’ultimo numero, sulla copertina de “La difesa della razza”), che occorre dare risposta a due distinte domande: cosa, con questi versi, avesse voluto dire il poeta; cosa, invece, i redattori del quindicinale razzista volessero far credere che il poeta avesse voluto dire. Perché è del tutto evidente che le domande sono diverse, così come differenti devono essere le risposte.
Cominciamo dalla prima.
Nel Canto – ambientato, nella prima parte, nel cielo della Luna, e poi in quello di Mercurio – Dante, per bocca di Beatrice, affronta un importante argomento teologico, che coinvolgeva fortemente il dibattito canonistico del suo tempo (fu affrontato anche da Tommaso d’Aquino), ossia la possibilità di chiedere e ottenere la dispensa dal voto sacerdotale. Quello della libertà, spiega Beatrice, fu “lo maggior dono”, che, nella creazione, Dio volle fare all’uomo, un dono che fu fatto alle “creature intelligenti,/ e tutte e sole” (19-24): tutti gli uomini, e solo gli uomini, ne sono beneficiari. L’importanza assoluta del valore della libertà, com’è noto, è ricorrente nel pensiero del poeta: il sistema retributivo delle pene e dei premi del mondo ultraterreno si basa sempre sul riconoscimento del libero arbitrio, e quindi della libertà dell’uomo di determinare il proprio destino ultraterreno. Ed è un valore tanto alto da indurre il poeta perfino a giustificare chi, come Catone, in nome della libertà, sceglie di rinunciare alla vita stessa (compiendo così quello che, di regola, sarebbe un grave peccato, ossia il suicidio): Catone non è collocato nell’Inferno, ma è il custode del Purgatorio.
Con il voto, però, si rinuncia a tale dono, dal momento che si sottoscrive con Dio una scelta irreversibile, un “patto” con cui si rinuncia per sempre a tale inestimabile “tesoro” (28-30). Si può sciogliere questo patto? Per farlo, evidentemente, bisognerebbe dare qualcosa in cambio, qualcosa che abbia lo stesso valore della libertà che si offre, e a cui si rinuncia. Ma può esistere qualcosa che valga quanto la libertà? (31). La domanda è retorica, niente potrà mai valere quanto essa. Ciò a cui si è liberamente rinunciato non potrà mai essere riacquistato, perché non si potrà mai dare in cambio, per riaverlo, qualcosa dello stesso valore.
Eppure, denuncia Beatrice, la Chiesa si mostra pronta a elargire dispense dal voto. Una prassi che Dante evidentemente considera biasimevole, in quanto fondata sull’idea che la Chiesa possa sciogliere un patto sottoscritto direttamente con Dio (e, inoltre – anche se ciò non viene detto esplicitamente – in quanto fonte di corruzione, dal momento che le dispense venivano spesso vendute per denaro, come le indulgenze). “Non prendan li mortal li voti a ciancia” (64), i voti non vanno considerati come delle cose di poco conto, dai quali si può facilmente recedere. Quei vescovi che si comportano diversamente sbagliano, e non occorre seguirli.
E qui segue una forte esortazione al popolo dei cristiani, che è poi una sferzante critica alle degenerazioni della Chiesa di quel tempo: “Siate, Cristiani, a muovervi più gravi” (73). Cristiani, siate più seri nei vostri comportamenti: il voto è un patto con Dio, è una cosa seria, ed è per sempre. “Avete il novo e ‘l vecchio Testamento,/ e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida;/ questo vi basti a vostro salvamento”: avete la Bibbia (divisa nel Nuovo e Vecchio Testamento) e avete l’autorità del papa. Non avete bisogno di altro per la salvezza. Non lasciatevi fuorviare dagli errori dei vescovi.
Dopo di che, le parole che siamo chiamati a interpretare: “Se mala cupidigia altro vi grida,/ uomini siate, e non pecore matte,/ sì che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida!”. Se, invece, sentimenti di avidità o passioni terrene vi inducono in tentazione, sappiate resistervi. Comportatevi da uomini, e non da pecore, prive di ragione (matte), in modo che gli Ebrei non abbiano a farsi beffe di voi.
Perché gli Ebrei avrebbero dovuto farsi beffe dei cristiani? Il riferimento, senza alcun dubbio, è un complimento, non un segno di disprezzo. Ciò si evince con assoluta chiarezza dai versi precedenti, dove si legge – a dimostrazione della irrevocabilità del voto – che “necessitato fu a li Ebrei/ pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta/ si permutasse” (49-51). In presenza di un dovere di offerta sacrificale, era possibile, nell’antico Israele, in caso di necessità, sostituire l’oggetto dell’offerta, ma non eliminare il sacrificio, che doveva in ogni caso avvenire, in quanto adempimento di un patto con Dio. Gli Ebrei, che hanno solo quello che i Cristiani chiamano Vecchio Testamento, sono fedeli alla loro Legge. I Cristiani, che hanno anche il Nuovo, dovrebbero prendere da loro esempio. Il senso è chiarissimo.
Su queste parole restano, però, ancora delle cose da dire. Lo faremo nelle prossime puntate.
Francesco Lucrezi