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Di ciò di cui non si può parlare

Marco Cassuto Morselli è praticamente un mio coetaneo. Ci siamo conosciuti da poco, per via di una sua conferenza tenuta nell’ambito dell’Amicizia Ebraico-Cristiana, della cui Federazione è presidente. Ha scritto di Benamozegh e di tanti altri filosofi ebrei (come me considera Gennaro Sasso un maestro incantevole); oltre ad aver curato vari testi di esegesi biblica, Marco è l’ideatore e curatore, con Giulio Michelini, di un’impresa di ampie dimensioni da poco conclusasi, come la Bibbia dell’Amicizia. Tre volumi che a me sono sembrati un immenso passo in avanti rispetto alla molto discussa e discutibile Bibbia concordata di parecchi anni fa. Ora Cassuto Morselli pubblica da Castelvecchi uno strano libretto di memorie: Di ciò di cui non si può parlare, titolo ispirato alla famosa frase di Wittgenstein “Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. In coda al libro l’autore ci dà la chiave di lettura giusta, che è quella dettata da una sua amica psicoanalista: “Di ciò di cui non si può tacere, si deve parlare”.
E il libretto parla, dice tante cose nell’economia di un testo che non supera le cento pagine: racconta un percorso di formazione culturale che è tipico di tutti noi nati liberi negli anni Cinquanta, figli di sopravvissuti, che s’interrogano sui modi di essere ebrei nella contemporaneità. La prima cosa che ci accomuna è la lezione delle nonne che avevano compulsato fino ai loro ultimi giorni Le preghiere di un cuore israelita. Esperienza credo molto comune per la nostra generazione, che la dice lunga sui nostri dubbi, ma anche un po’ sulle nostre certezze. Con una stupefacente flessibilità, in poche pagine, Cassuto Morselli riesce a darci un quadro precise dei suoi antenati: dalla bassa padana a Salonicco, dalla Roma della sua maestra indimenticabile Lea Sestieri alla Tel Aviv dove si è compiuto e felicemente concluso il suo percorso di avvicinamento all’ebraismo. Trova anche il tempo e il modo di inserire inediti documenti e un diario di uno zio che fu partigiano sull’Appennino reggiano, la cui memoria era avvolta nella nebbia della casa in Ghiara. L’autore dissipa le nebbie, con un tono leggero, mai recriminatorio anche quando si trova ad affrontare i grandi nodi del tardo Novecento ebraico-italiano. Una lettura ideale, da consigliare in questi tempi calamitosi.

Alberto Cavaglion