L’intervista al rav Alberto Somekh
“Un futuro all’altezza solo studiando”
C’è un solo modo, per l’ebraismo italiano, per avere futuro e continuità. Ed è quello di studiare. È il messaggio che rav Alberto Moshe Somekh consegna al termine di una conversazione attorno al suo nuovo libro, “L’albero capovolto” (ed. Giuntina). Una disamina su varie questioni, molto chiara e stimolante, che mette al centro gli insegnamenti della Torah orale. Un patrimonio identitario immenso ma forse non sufficientemente acquisito. La sensazione dell’autore – il cui saggio è introdotto da un intervento del rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma – è infatti “che troppo poco se ne parli, che troppo poco si conosca”.
“L’albero capovolto”, di cui vi avevamo proposto un’anticipazione negli scorsi giorni, nasce anche per questo: “Colmare, se possibile, qualche lacuna”.
Quale è la specificità di questo volume?
Quella di portare una visione ebraica dell’ebraismo. Mi spiego meglio: guardandomi attorno riscontro l’esistenza di una letteratura ebraica che ha un suo seguito non irrilevante ma che ha anche la caratteristica di risentire in modo tangibile degli influssi della cultura dominante. Di essere costruita ad hoc per piacere a un determinato pubblico. Sarò esplicito: il successo di tali operazioni editoriali, ispirate in parte da ragioni di mercato, non è una consolazione ma una parte del problema. L’ebraismo più genuino, la tradizione nella sua essenza più autentica, è tutt’altra cosa rispetto a quel che in genere si vede in circolazione, sugli scaffali delle librerie. È il pensiero del rav Soloveitchik, ad esempio, molto meno adatto ai gusti italiani ma assai più ‘ebraico’ di tanti altri contributi.
“L’albero capovolto” è soltanto l’ultimo di una lunga serie di libri. Perché questa necessità di scrivere e non comunicare soltanto oralmente?
È un compito cui, come rabbini, ritengo doveroso non sottrarsi. La comunicazione orale, per quanto indispensabile, non è infatti completa. So bene che la scrittura richiede tempo, pazienza, fatica. Ma è una strada ineludibile se vogliamo lasciare un segno ed essere anche più autorevoli. Mi piacerebbe che la si percorresse un po’ di più rispetto a quanto accade attualmente.
Quando nasce questo libro?
Nella prima parte della pandemia, durante il lockdown della primavera del 2020. Un momento di sospensione che ho cercato di utilizzare al meglio per studiare, riprendere in mano certe pagine, approfondirle ed elaborarle. Spero che possa essere lo spunto, per chi lo leggerà, per fare altrettanto.
La pandemia è stata segnata dall’avvento di un nuovo strumento dalle potenzialità anche didattiche come Zoom. L’ebraismo italiano ne ha fatto buon uso?
Penso di sì. C’è stato tutto un proliferare di iniziative, cui anche il rabbinato italiano ha preso parte con una certa efficacia. Attenzione però a perdere di vista il punto: Zoom si è rivelato una strumento eccezionale nell’avvicinare senza fatica persone lontane non solo geograficamente, ma di per sè non basta per creare partecipazione nè comunicazione di livello. Ha molti difetti che saremmo miopi a non vedere. Tra gli altri quello di una socialità che finisce inevitabilmente per disgregarsi, con grave danno per chi parla e per chi ascolta. Il dibattito stesso ne risente, diventando quasi inconsistente. Non serve forse neanche che aggiunga quanto il dibattito sia essenziale per noi ebrei, per definire chi siamo e dove vogliamo andare.
Quali le responsabilità oggi di un rabbino?
Preparare una nuova generazione di ebrei, portarla ad essere forte e consapevole della propria identità. Non voglio essere negativo a tutti i costi ma la mia sensazione è che talvolta ci si dimentichi di questo compito, che è e resta un’assoluta priorità. Non è un tema solo italiano, doveroso precisarlo. Mi pare infatti che il problema esista un po’ ovunque nel mondo, anche se altrove forse si vedono emergere più nitidamente delle soluzioni. Il punto chiave è il seguente: bisogna studiare e credere negli ideali che la comunità rappresenta, senza fare troppe distinzioni tra vita ebraica nella sfera pubblica e in quella privata.
Le origini della sua famiglia sono a Baghdad, in Iraq. C’è qualcosa di quel mondo ebraico oggi estinto di cui sente addosso l’eredità?
Certamente è un retaggio importante, per quanto abbia vissuto la quasi totalità della mia vita in Italia. Senz’altro direi l’impegno intellettuale verso la Torah: una cifra di questa antica comunità sradicata che ha dato a Israele anche numerosi rabbini capo sefarditi. Come rav Ovadia Yosef z.l, il cui nome onorava la memoria del fratello del mio bisnonno: un grande saggio vissuto nell’Ottocento che si chiamava Abdallah Somekh. Ovadia è la traduzione di Abdallah.
Che Pesach ci aspetta?
Un Pesach di ritrovata ‘normalità’ dopo due anni molto difficili per via della pandemia. ‘Normalità’ che comunque si inserisce in un contesto globale drammatico, dal conflitto in Ucraina, ai numerosi attentati terroristici contro Israele, per arrivare alle tensioni che stanno dilaniando la stessa società israeliana. Mi addolora questa polarizzazione religiosi-laici esasperata, con riflessi anche nell’arena politica. Da una parte è un errore grave disconoscere l’identità specifica di questo Stato, che è uno Stato ebraico, con iniziative fuorvianti. Dall’altra agire e reagire caricando sempre tutto con toni eccessivi che finiscono poi per ampliare e non certo per ricucire le ferite. Sono molto preoccupato, non lo nascondo.
a.s twitter @asmulevichmoked
(14 aprile 2022)