Machshevet Israel
Memoria obliqua

Mentre la Storia si dipana sotto i nostri attoniti e rassegnati occhi, involontari testimoni del sempre-uguale che si rinnova agìto da sempre-nuovi ‘re d’Assiria’, torniamo a pensare al difficile rapporto che una civiltà deve coltivare con il proprio passato, con la memoria e con la storia. La conoscenza storica da sola non basta; solo la memoria, se elabora eticamente ‘quel che è stato’, diventa ethos, diventa civiltà. Ad esempio, l’antigiudaismo religioso cristiano si capovolge in insegnamento del rispetto, persino della stima nei confronti di ebrei e giudaismo, solo se passa attraverso l’elaborazione delle sue dolorose memorie e un riesame critico della propria eredità identitaria, discernendo e purificando là dove è necessario. La ricerca storica filtra i fatti con gli strumenti della ragione (cause, concause, comparazioni, ecc.), la memoria invece lavora sui fatti filtrati dagli storici e li trasforma in chiave etica, li eleva a standard di civiltà sotto i quali non ci si può più permettere di andare. Là dove questo passaggio non avviene, nihil novi sub sole e la storia ripete circolarmente le proprie nefandezze.
Ma c’è modo e modo di fare memoria. È tema che ricorre, in Europa, ogni mese di gennaio. A debita distanza, vorrei raccogliere la ‘modesta proposta’ espressa dall’amico e maestro Alberto Cavaglion di sostituire alla “memoria rituale sottomessa agli ondeggiamenti della lotta politica” una memoria diversa, che Alberto chiama, su calco francese di alcuni ‘autori indispensabili’, memoria obliqua. La proposta è stata articolata ed esemplificata nel suo acuto, stimolante libro Decontaminare le memorie (add editore, Torino 2021), un periplo a tappe solo in apparenza disordinato tra luoghi e libri, tra sogni e, mi permetto di aggiungere, incubi del nostro recente vissuto europeo (i due conflitti mondiali, il fascismo, la Shoà, la resistenza che fa la differenza morale tra chi aggredisce e chi si difende). Un percorso di geografia umana che non grida ma suggerisce, che non impone ma fa proposte, sceglie se necessario la sosta silenziosa e persino il sorriso e l’ironia, indici a volte, non sempre, di trasversalità – l’obliquo, appunto – che obbliga a pensare di più, che porta a e-laborare (etimologicamente, ‘far la fatica’ di far nascere qualcosa). Spiega Cavaglion: “Obliqua è la memoria che evita la frontalità del ricordo imposto dall’alto, che si prende gioco delle regole della retorica classica, che viene coltivata in solitudine o in piccoli gruppi e non in celebrazioni di massa… coltivata nell’intimità, deve essere il prodotto di una voluta deviazione… del ductus obliquus degli antichi, tipico di chi, per pudore, ma anche per volontà consapevole della grandezza delle cose che ha da trasmettere, sa che i ricordi gravosi non vanno mai presi di punta, non li si impone per legge, non li si urla ad alta voce, ma vanno cercati nel cuore di una narrazione diagonale” (p.61). Mi sento in piena sintonia.
Cavaglion addita nel geniale Georges Perec (Parigi 1936-1982) il padre sommo di quest’arte del ‘dire obliquo’ per una memoria ferma e pudìca ad un tempo, etica e fondativa e non solo retorica e politicamente spendibile. Suggerisce il romanzo lipogrammatico La scomparsa, “portato termine senza fare uso della vocale ‘e’, la più ricorrente nella lingua francese”. Dice con sagacia il biografo di Perec, David Bellos, che “i romanzi lipogrammatici, facendo sparire delle vocali, tendono a ritrovare la struttura della lingua ebraica; eliminando la ‘e’ di Perec, il nome [del raffinato intellettuale ebreo francese] riappare nella sua grafia ebraica originaria” ossia pe-resh-tzadè, che significa ‘breccia’, ‘pertugio’, ‘scarto’… come a dire, uno spazio obliquo, anzi fortuito, quasi forzato per far correre aria, aprirsi una fuga, guadagnare una libertà. L’amico piemontese segnala anche, di Perec, l’autobiografico W o il ricordo d’infanzia, prima e unica parte di una progettata tetralogia, nel quale vissuto e sognato, reale e fantasmagorico si intrecciano, perché la memoria è anche, paradossalmente, costruzione immaginifica, è anche quel sogno che compare nel sottotitolo del libro di Cavaglion e che ‘forza la storia’ oltre se stessa, in un esercizio di creatività etica che alimenta la resistenza contro le forze materiali e brute, contro la forza tout court, che nell’approccio alla storia nessun realista può e deve negare. Le due parti di quest’ultima opera si aprono con una citazione spezzata, di Raymond Queneau, fondatore dell’Oulipo, il Laboratorio di letteratura potenziale di cui face parte, con Perec, anche il nostro Italo Calvino, citazione che allude al compito di chi scrive per salvare la memoria: “schiarire le brume insensate in cui si agitano le ombre”, le ombre dei sogni e soprattutto quelle degli incubi dell’umanità. Alla lista di Alberto vorrei aggiungere, se posso, l’utimo volumetto di Daniel Vogelmann, L’orologio di papà e altri ricordi (Giuntina, Firenze 2022), fresco di stampa, incantevole esempio di memoria obliqua, non meno dolorosa né meno commovente, ma capace comunque di leggerezza, di autoironia e persino di un’ironia teologica, ki-vjakol; capace in sostanza di fedeltà verso il padre (e i padri, intesi come avot) ma anche verso le nuove generazioni, in una catena di solidarietà intergenerazionale – icasticamente espressa nella dedica – che è poi lo scopo di ogni ‘fare memoria’.

Massimo Giuliani, università di Trento

(14 aprile 2022)