“Il nostro Pesach a Odessa,
insieme contro il buio”

Il cielo sopra Odessa in questi giorni si è fatto nero. L’attacco russo contro una raffineria locale ha coperto di fumo la città e reso scuri i volti di chi ha scelto di restare. Si convive con la costante paura che la situazione precipiti. Un clima di tensione che si cerca di spezzare in modi diversi, ad esempio affrontando insieme questi interminabili giorni di conflitto. Per gli ebrei di Odessa, celebrando la festività di Pesach. “Nonostante questo clima difficile, abbiamo avuto per giorni decine e decine di persone in fila per ricevere i pacchi che abbiamo preparato per Pesach. È la dimostrazione che c’è un grande desiderio di sentirsi parte della comunità, di qualcosa di più grande”, spiega a Pagine Ebraiche da Odessa Chaya Wolff. Assieme al marito Avraham, rabbino capo della città, racconta l’impegno di garantire la possibilità alla comunità di celebrare l’imminente festa. “Sono stati distribuiti centinaia di pacchi di matzot (pane azzimo) e buoni pasto per fare acquisti in un negozio della città. Abbiamo preparato piatti già pronti per il Seder per chi vuole festeggiarlo a casa. Dal maror (erbe amare, simbolo della sofferenza patita dal popolo ebraico in Egitto) alla Charoset (impasto che rappresenta la malta usata dagli schiavi in Egitto per fare i mattoni), c’è tutto. Aspettiamo per la prima sera della festa in sinagoga almeno centoventi persone e centosessanta in un hotel che abbiamo prenotato per stare insieme”. La cerimonia in sinagoga, spiega Chaya Wolff, sarà in anticipo rispetto all’orario normale. “Dobbiamo rispettare il coprifuoco. Riusciremo comunque a fare tutto in tempo e a garantire a chi viene un po’ di speranza e gioia”. Lei e il marito, emissari del movimento Chabad, si sono trasferiti a Odessa nel 1992. Insieme hanno costruito un orfanotrofio e lavorato per riaprire diversi servizi per la comunità ebraica locale. “Sono stati anni di grande rinascita. Mai avremmo pensato di assistere a una tragedia come questa guerra. Abbiamo negli occhi i massacri di Bucha, la tragedia di Mariupol. Preghiamo che si arrivi a un accordo e alla pace. Servirà un miracolo a cui ora è difficile credere, ma anche gli ebrei schiavi in Egitto inizialmente non credevano nella liberazione”. Per questo, aggiunge, non si può perdere la fiducia. “Speriamo di essere liberati presto da questa guerra, che tutti possano finalmente tornare alle loro famiglie in Ucraina e a Odessa. Speriamo di tornare ad essere uomini e donne libere. Che la luce trionfi su questo buio”.
L’impegno dei Wolff, già raccontato su queste pagine, in cinquanta giorni di guerra ha toccato tutti gli ambiti dell’emergenza. Dalla distribuzione di cibo, che non si è mai interrotta. Al trasferimento di persone oltreconfine, soprattutto bambini. “Molti si sono ritrovati a Berlino e ora faranno lì Pesach”. Chi è rimasto è con le madri e con le nonne in città. “Seguiamo anche loro, così come i sopravvissuti alla Shoah. Per loro è difficile, viste le memorie del passato, ma cerchiamo di non fargli mancare nulla”. Alla vigilia della festa, sono arrivati due container pieni di cibo e questo dà conforto. “Abbiamo tutto, anche la cioccolata. E poi grazie a Dio sono arrivate persone ad aiutare dalla Francia, da Londra, da Israele”. Nonostante il contesto difficile, il pensiero va al padre Moshe Greenberg. “Mio marito in questi giorni mi ricorda la storia di mio padre: lui è nato qui, in Ucraina. Era un refusnik ed è stato deportato in Siberia durante il regime sovietico. Ha passato in prigione sette anni e per Pesach aveva solo un cubetto di zucchero”. Una storia che aiuta a raccogliere oggi le forze e a mantenere l’ottimismo, spiega la figlia. “Mio padre ha lasciato queste terre nel 1966 e non è più voluto tornare. Mia madre Dvora, anche lei ucraina, invece è venuta a trovarci qui ad Odessa. Era stupita e contenta di vedere i miei figli giocare liberamente per strada, con la kippah in testa. Era quasi incredula che la sinagoga potesse funzionare regolarmente, con la scuola, l’orfanotrofio, la mensa. Felice di vedere tanta libertà”.
Poi l’attenzione torna ai pacchi da distribuire, alle ultime cose da organizzare per la festa e non solo. Prima però un appello a tutto il mondo ebraico. “In questo Pesach, ancor più che in passato, è importante aprire la porta di casa a uno sconosciuto, a chi è solo. Aggiungete un posto a tavola per un rifugiato ucraino o per chiunque. Sarà una mitzvah, un gesto che porterà luce e aiuterà a sconfiggere questa oscurità del presente”.
Daniel Reichel