Parole da interpretare

Abbiamo spiegato, nella scorsa puntata, come l’espressione adoperata da Dante, nel quinto Canto del Paradiso, “Uomini siate, e non pecore matte,/ sì che ‘l giudeo di voi tra voi non rida!” (80-81) non abbia affatto un significato di disprezzo verso gli ebrei (come avrebbero voluto fare credere i redattori de La difesa della razza), ma, al contrario, di ammirazione. Gli ebrei, osserva Beatrice, sono sempre stati rigorosi nel rispettare i loro doveri verso il Signore, cosicché i cristiani, col loro comportamento poco serio e coerente, si espongono giustamente a un loro giudizio di riprovazione.
Non si può nascondere, però, che l’espressione riguardo il “riso” dei giudei è adoperata anche in un’epistola (XI.3) del poeta, laddove viene criticata la scarsa attenzione dedicata dai cardinali allo studio del pensiero dei padri della Chiesa. Ciò farebbe sì che gli “infedeli”, come gli ebrei e i musulmani, sarebbero indotti a non rispettare le festività cristiane, e a non portare rispetto a quel Dio che gli stessi cristiani mostrerebbero di trascurare: “piget, Heu! non minus quam plagam lamentabilem cernere heresium, quod impietatis fautores, Iudei, Saraceni et gentes, sabbata nostra rident, et, ut fertur, conclamant: ‘Ubi est Deus eorum?’”. Il senso del passo dell’epistola è analogo a quello dei versi del Paradiso, in quanto in entrambi i luoghi si esprime un ammonimento nei confronti delle autorità ecclesiastiche, che mancherebbero alla loro funzione, così da meritare la critica dei seguaci di altre religioni, che avrebbero fondati motivi per denunciare l’incoerenza e la superficialità della Chiesa. I cristiani dovrebbero dare il buon esempio, e invece ne danno uno cattivo.
Nell’epistola, diversamente dal Canto del Paradiso, gli ebrei sono accomunati ai saraceni: entrambi “ridono” delle feste (sabbata) cristiane. Ciò che però colpisce, nell’epistola, è la definizione, riservata a ebrei e arabi, di “impietatis fautores”. La parola latina impietas non può essere propriamente tradotta con “empietà”, dal momento che il concetto di pietas rinvia soprattutto all’assolvimento di un dovere, verso le divinità, la famiglia o la patria, e così il suo opposto vuole esprimere l’idea di una disobbedienza, una infedeltà.
Certamente, comunque, non si tratta di un complimento, e l’espressione esprime un generale biasimo. Si può dire che è l’unico caso, in tutta la sterminata produzione dantesca, in cui il poeta riserva agli ebrei, nel loro insieme, un epiteto offensivo. Tuttavia, anche in questo caso, le sue parole vanno contestualizzate e interpretate.
La lettera fu scritta dopo la morte di Clemente V, avvenuta il 20 aprile 1314, e fu indirizzata ai cardinali italiani, affinché scegliessero, per il soglio pontificio, un papa italiano, che riportasse la sede del papato (che Clemente aveva spostato ad Avignone) a Roma. Ed è un’epistola fortemente polemica nei confronti dei cardinali, accusati di mancare al loro dovere e di tradire la loro missione.
È esclusivamente colpa del clero se coloro, come gli ebrei e i musulmani, che sono fuori dalla Chiesa, guardano ad essa con senso di superiorità, e sono portati a chiedersi dove sia il Dio dei cristiani, dal momento che i suoi stessi fedeli mostrano di non vederlo. In tal senso, la locuzione “impietatis fautores” vuole risultare sferzante, più che verso israeliti e islamici, vero gli stessi cardinali: come potete sperare di guidare il popolo di Dio, se persino coloro che sono fuori dalla cristianità possono legittimamente pensare di essere a voi superiori, in quanto più coerenti nella fede? La domanda “Ubi est Deus deorum?” non è certo un segno di cecità da parte di chi la pone, ma, al contrario, esprime una denuncia giusta e legittima. Voi, cardinali, fate sì che una simile domanda possa essere sollevata da coloro che voi ritenete “impietatis fautores”, e che, invece, col loro “riso”, vi richiamano alle vostre responsabilità.
La frase è un’iperbole, un paradosso, fuori dallo spirito polemico perde il suo senso. E, comunque, essa non fa parte della Commedia. E poi, lo stesso poeta mostra, con l’inciso “ut fertur”, di prenderla con cautela: “ut fertur”, “come è riportato”. Qualcuno, non io, dice di averlo sentito dire, chi sa se è vero.
In più, c’è un’altra parola significativa da esaminare, ossia il termine “gentes”. Nel contesto, tale espressione vuol dire “eccetera”, nel senso di “giudei, saraceni e altri infedeli”. Tutti questi sarebbero “impietatis fautores”, in quanto fuori dalla cristianità. Ho scritto, nelle puntate precedenti, che il destino di musulmani ed ebrei, per Dante, sarebbe diverso, in quanto ai secondi non sarebbero precluse le porte del Paradiso. Ma non era, l’epistola, il posto adatto per tali distinzioni, non era certo quello l’argomento trattato. E sarebbe eccessivo, soprattutto, pretendere da Dante che non ritenesse che il cristianesimo fosse destinato ad accogliere tutta l’umanità, senza eccezioni, e quindi ebrei compresi. Il cristianesimo è la casa della pietas, fuori c’è l’impietas. La frase, secondo la nostra sensibilità contemporanea, appare intollerante e sgradevole, ma essa va inserita nella visione teologica medievale e specificamente dantesca, nella quale il concetto di tolleranza era molto diverso. E, soprattutto, non è rivolta specificamente contro gli ebrei, ma, genericamente, contro tutti i non cristiani. Non è una frase antisemita.
Resta da vedere, a questo punto, il significato attribuito ai due versi del quinto Canto nel contesto de La difesa della razza. Un quindicinale che, se oggi riaprisse, troverebbe facilmente qualche vignettista felice di potere offrire la sua collaborazione, anche gratis.

Francesco Lucrezi

(20 aprile 2022)