Pesach e la “calunnia del sangue”,
la missione romana
di Sir Moses Montefiore
In una lettera inviata nel 1860 dal rabbino capo di Roma Giacobbe Fasani a Samuel David Luzzatto (Shadal), il più grande ebraista italiano dell’epoca e uno dei più importanti in Europa, così scriveva il rabbino romano:
Ecc.mo Sig.e ed Am.o Cariss. Roma 10 aprile 1860
Ricevo la Sua Preg.ma […]. Qui grazie al Cielo si vive alquanto tranquilli e l’ansietà di cui le feci motto credo che attualm[ent]e affetti pressoché tutta Europa, ma qui più che altrove. […]
Quel “si vive alquanto tranquilli” non deve ingannare. In realtà erano tempi di “ansietà” in tutta Europa, e qui – ossia a Roma – “più che altrove”. Ma si stava un po’ più tranquilli rispetto all’aprile dell’anno precedente, con la “calunnia del sangue” rivolta agli ebrei di Roma. Fasani ne scrisse in dettaglio a Shadal in una lettera dell’aprile 1859 in cui raccontava quanto era avvenuto pochi giorni prima, la sera dello Shabbat ha-Gadol, il sabato precedente Pesach, quando a Roma era presente anche Sir Moses Montefiore con il suo seguito.
Sir Moses Montefiore (1784-1885), l’illustre ebreo londinese nato a Livorno da famiglia anconetana, è considerato il filantropo ebreo per antonomasia. Fin da giovane iniziò a occuparsi del destino degli ebrei d’Europa e del Mediterraneo, e nel corso della sua vita ultracentenaria furono numerose le sue missioni, inclusi ben sette viaggi in Terra d’Israele. Molto stretti furono i suoi rapporti con l’Italia, per via delle parentele e per la centralità geografica del Paese. A Roma venne a più riprese, in particolare nel 1839, nel ’40 e nel ’59. Nel 1840 era scoppiato “l’affare di Damasco”, quando alcuni ebrei della locale comunità furono ingiustamente incarcerati con l’accusa dell’omicidio di un frate cappuccino italiano. Montefiore si recò a Alessandria d’Egitto per intercedere presso il Sultano Mohamed Ali e successivamente a Costantinopoli, ottenendo un successo clamoroso: gli ebrei furono liberati e scagionati dall’accusa.
Nel dicembre 1840, di ritorno dalla missione per l’affare di Damasco, Montefiore e sua moglie vennero in visita a Roma, dove erano già stati l’anno precedente, e non mancarono, fra l’altro, di fare beneficenza ai poveri del Ghetto. Scrive Enzo Sereni in un articolo pubblicato sulla Rassegna Mensile d’Israele nel 1927, lo stesso anno della sua aliyà in Israele:
Montefiore fu considerato da molti un nuovo Mosè: da tutti un salvatore, che aveva salvato Israele da un pericolo mortale. […] Si era di Hanuccà e non parrà perciò troppo strano che il buon Rabbino Giacobbe Fasani, nel suo indirizzo in italiano paragonasse Montefiore a Giuda Maccabeo, esprimendo così un po’ il sentimento di tutti i contemporanei per questo prode cavaliere dell’ebraismo.
Rav Fasani, per ringraziare Moses Montefiore degli aiuti corrisposti agli ebrei romani, gli dedicò un sonetto in ebraico in cui accostava il profeta Mosè figlio di Amram, scelto dal Cielo per salvare gli ebrei dalla schiavitù d’Egitto più di tremila anni fa, al Mosè “figlio di un popolo elevato” (un’allusione agli inglesi), scelto dal Cielo per salvare gli ebrei di Damasco sotto il dominio d’Egitto.
Vent’anni dopo, nel 1859, poco prima della festa di Pesach, Montefiore tornò a Roma per perorare la causa della famiglia Mortara, in angoscia per il piccolo Edgardo sottratto a forza dalle autorità pontificie dopo che il bambino ebreo era stato battezzato clandestinamente dalla domestica cristiana. Questa volta il tentativo di Montefiore di ottenere la restituzione del bambino alla famiglia non ebbe successo.
Rav Fasani racconta della venuta di Montefiore in una lettera indirizzata a Shadal il 29 aprile 1859, dove scrive della “triste condizione finanziaria e politica di q[ues]ta qehillà [Comunità] per la risvegliatasi ‘alilàt ha-dam [calunnia del sangue]” e così riporta:
Già dal venerdì andavasi vociferando che mancavano 3 ragazzi e subito se ne accaggionavano gli Israeliti. Difatti la sera del Shabbat ha-Gadol [il Grande Sabato che precede Pesach], verso le 9 e mezza fu all’improvviso bloccato il quartiere delli battè keneset [sinagoghe] da Gendarmi e da sbirri, i quali non mancavano abusare degli ordini ricevuti anche ‘ad hakkahà [fino alle botte], […] così si fece violenza alle porte si aprirono li battè keneset, bensì gli Hekhalot ha-Qodesh [Arche Sante] furono rispettati. Si esaminarono perfino i tegami e le pentole, si scoprirono i letti e si esaminarono i fanciulli se erano circoncisi! Finalm. dopo 2 ore di matte ricerche se ne andarono scornati. Vero si è che tutti i Dignitari di alta sfera udirono con indignaz. simile attentato, che fu opera della più bassa autorità. […] Il fatto sta che abbiamo avuto una settimana un chag ha-matzot [festa della azzime] di pene, mentre non si potea girare per li rioni del basso popolo, senza ricevere oltraggi di ogni sorta. Finalm. dopo si è saputo che i ragazzi se n’erano andati a trovare il Padre che sta più di 100 miglia lontano, senza dir nulla alla madre. Ora si afferma essere stata opera di più di 60 infami, che unironsi a farli sparire e poi spargere la voce dell’assassinio per mezzo del magnetismo; molti ne sono arrestati fra quali il magnetizzatore e la Sonnambula. Basta, l’Altis.mo continua ad assisterci anche be-hastarat panim [con il nascondimento del Volto (divino)]; e l’Ill.tre Montefiore ch’è venuto a mangiare le n.tre Azzime, il Shabbat ha-Gadol celebrò le preghiere nel suo nobile albergo col Sefer Torah [rotolo della Torah] che seco conduce; ma d’allora in poi sera e mattina alle 6, sebbene lungi quasi due miglia è sempre venuto ai n.ri battè keneset e sebbene consigliato a starsene in casa vi protestò che voleva di buon animo partecipare ai n.ri disturbi. Io ho tardato fin ad ora di risponderle per narrarle il fatto il meglio possibile.
Nei Diari di Sir Moses Montefiore si riferisce dell’evento essenzialmente nello stesso modo, seppur con meno dettagli, e i ragazzi coinvolti sono due invece che tre. A conclusione della missione a Roma, il 10 maggio del 1859, Montefiore scrisse:
Ringrazio, benedico e rendo omaggio al Dio dei miei padri per avermi fatto uscire da Roma sano e salvo con mia moglie […]. È una qualche soddisfazione sapere che tutti coloro che ho consultato per il caso Mortara sono stati concordi nell’opinione che non avrei potuto fare niente di più e che, allo stato presente delle cose, il mio rimanere a Roma non sarebbe di alcuna utilità né auspicabile. Questo viaggio e la missione sono stati, da molti punti di vista, una triste e dolorosa prova di pazienza e, aggiungerei, di perseveranza, ma il nostro Dio è in Cielo e senza dubbio Egli ha permesso qualcosa che per i nostri amici ecc. risulterà una delusione e un dolore per noi, [ma in realtà è finalizzato] ai migliori e più saggi propositi. Benedetto sia il Suo nome!
Rav Gianfranco Di Segni
Bibliografia essenziale:
Fondo Shadal, depositato presso il Centro Bibliografico dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, dove si trovano una trentina di lettere spedite da rav Fasani a Shadal, fra il 1855 e il 1864.
E. Sereni, La Comunità di Roma e l’affare di Damasco, “La Rassegna Mensile di Israel” (RMI), III (2-3), 1927.
U. Nahon, Sir Moses Montefiore e l’affare di Damasco del 1840, RMI, XXXVII (11), 1971; Idem, I tributi di omaggio degli Ebrei d’Italia a Sir Moses Montefiore nel suo centenario, in Scritti in memoria di Federico Luzzatto, RMI, XXVIII (3-4), 5722-1962, pp. 203-217.
Diaries of Sir Moses and Lady Montefiore, ed. by L. Loewe, Chicago 1890, vol. I, cap. XIX, XXVII e XXXIV; vol. II, cap. X-XII, in part. pp. 92-93 e 97-99.
D.G. Di Segni, Il rabbinato romano nel Risorgimento: Rav Giacobbe Fasani, in 1849-1871, Ebrei di Roma tra segregazione ed emancipazione, a cura di F. Leone e G. Calò, Gangemi editore, Roma 2021.