Ticketless – La giornata
degli Alpini
Sonni turbati da insorgenze del passato che non vuole passare. Da 35 anni Pesach si associa al ricordo della scomparsa di Primo Levi, morto come si sa la vigilia del Seder. Ne ho parlato in una intervista cui rinvio (qui la versione francese).
Aggiungo che dal triste aprile di quel 1987 la mia Haggadah di famiglia si è arricchita della fotocopia della poesia Pasqua, composta da Levi per la sera del Seder 1982 (guerra del Libano, pubblicazione di Se non ora, quando?). Suggerirei a un futuro editore di inserire questa poesia in una Haggadah del terzo millennio corredata da similitudini con le oppressioni del secondo millennio, promemoria per coloro che pensano che le guerre di oggi siano diverse da quelle del Novecento.
Le notti sono tornate insonni e di nuovo la memoria di Levi s’è riaccesa con le immagini che in televisione si sovrappongono alla cartina de La tregua. In settimana si è aggiunta la notizia dell’istituzione di una data per il nostro calendario da dedicarsi alla memoria e al sacrificio degli Alpini, alla battaglia di Nikolajewka, luogo oggi di altri massacri. Su questo portale Gadi Luzzatto è già intervenuto per lamentare l’infelicità della scelta: il 26 gennaio, vigilia del 27. Difficile dargli torto. Da anni l’Italia s’è incanalata lungo questa assurda via, con intensità tale da rendere inutile qualsiasi ribellione. È andata così. Lo dico rassegnato, perché nel 2001 ero stato tra le rare Cassandre. A protestare sopraggiunge un comunicato della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (SISSCo), la Società italiana per la storia dell’età moderna (SISEM) e la Società italiana degli storici medievisti (SISMED), dove si stigmatizza “la crescente e spesso casuale attività legislativa volta a riscrivere, infittendolo, il calendario civile italiano, spesso con l’esito discutibile di stabilire verità di stato che nuocciono al libero esercizio della ricerca storica, o hanno, come risultato di decisioni sempre pienamente meditate, quello di creare potenziali problemi all’immagine, anche internazionale, della Repubblica”. Sante parole, che meritano però una chiosa. Nel comunicato si lamenta che la giornata “non si colleghi all’intera storia e all’impegno anche umanitario del Corpo, bensì ne isoli, celebrandola, un’impresa militare – la battaglia di Nikolajewka condotta all’interno di una guerra dell’Italia fascista”.
Intanto mi convince poco lo spirito corporativo. La SISSCo, la SISEM e la SISMED suggeriscono che in occasione di altri appuntamenti da mettere nel Calendario di Stato, presidenti di Camera e Senato “si avvalgano nella fase istruttoria del parere delle Società scientifiche”. Fatico a immaginare Fico e Casellati, calendario alla mano, recarsi nella sede della SISSCo, della SISEM e della SISMED, per sistemare le poche caselle rimaste libere. Qualche dubbio esprimo pure sulla critica mossa alla scelta di Nikolajewka. Non so che cosa direbbero gli autori del “Sergente della neve” e de “La strada del Davai”, Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli, che quella guerra fascista condivisero (come avrebbero potuto non farlo?), ma da quella guerra trassero motivo del loro riscatto (proprio osservando sgomenti i treni che conducevano in lager loro coetanei come Levi). In questo ragionamento ispirato dal criterio sempre fallace del senno del poi, i conti non mi tornano.
Tra l’altro il punto sulla terra che si chiama Nikolajewka, la battaglia del Don e la divisione Cuneense hanno risollevato dagli scantinati della mia memoria il ricordo di Andreino, di Gorré di Rittana, che il fascismo spedì in quella sventurata impresa. La mamma, Ciutina, accolse nella sua baita i miei nonni paterni e li tenne nascosti per due freddi inverni, facendo loro su per giù questo discorso: “Vi offro un riparo dai rastrellamenti nella speranza che in Russia qualcuno faccia altrettanto con il mio Andreino”. Spettrale e irriconoscibile, a piedi da Nikolajewka, come Levi da Auschwitz, una mattina del 1945 tornò. L’ho conosciuto anch’io, anche se per le conseguenze di quella campagna di Russia e di quel viaggio di ritorno Andreino morì giovane. Il suo ricordo è parte della mia formazione. Se facevo capricci o mi lamentavo per le scarpe strette mio padre si soffermava a raccontarmi e descrivermi con minuzia di particolari i piedi di Andreino quali apparvero al “ritorno in baita”, per adoperare le parole di Rigoni Stern che piacevano a Levi così da ispirargli un gioco etimologico fra baita e l’ebraico bait. Era un uomo mite e buono, avrebbe detto Levi. Anche Andreino ebbe il suo Pesach: si liberò della schiavitù e attraversò il deserto dopo essere passato dentro la guerra fascista. Che cosa avrebbe potuto o dovuto fare per non combattere in quella guerra? Forse, disertare? E come avrebbe potuto dopo vent’anni di propaganda del regime: una propaganda così tenace da indurre Revelli a iscriversi in Accademia Militare a Modena? Mi piacerebbe che gli amici della Sissco, un giorno, me lo spiegassero.
In memoria di Andreino, non per mero anticonformismo, mi dichiaro dunque disposto a celebrare il Giorno in memoria del sacrificio degli Alpini e non mi dolgo più di tanto per il fatto che sia stata scelta quella data.
Alberto Cavaglion
(20 aprile 2022)