Al di là del Mar Rosso

Commentando nel Birkè Yossef la discussione fra i Maestri se è lecito delegare altri a eliminare il nostro Chametz in vista di Pesach (Shulchan ‘Arukh, Orach Chayim 434, 4), il Chidà di Livorno (sec. XVIII) narra di una controversia sorta in una località imprecisata dei tempi suoi. Reuven e Shim’on erano vicini di casa: il primo possedeva un appartamento con molte stanze, mentre il secondo viveva in un monolocale. Reuven faticava a pulire la casa per Pesach data la sua ampiezza. Shim’on, d’altronde, dopo aver terminato rapidamente il lavoro nella sua modesta abitazione, decise di propria iniziativa di dare una mano al ricco dirimpettaio. Evidentemente aveva accesso al suo appartamento e senza dirgli nulla glielo fece trovare sgombro, credendo sinceramente di fargli un favore. Ma Reuven non apprezzò l’idea, al punto di rivolgersi per un parere rabbinico al Chidà: Shim’on gli aveva sottratto una Mitzwah che spettava al padrone di casa. Il Chidà diede ragione a Reuven. Secondo la Halakhah, se una persona porta via ad un’altra l’opportunità di eseguire un precetto, gli sottrae la ricompensa della Mitzwah stessa e ciò costituisce un danno, che i nostri Maestri arrivano a quantificare in una multa (Bavà Qammà 91b e Tos. ad loc. s.v. chiyyevò; Maimonide, Hil. Chovèl u-Mazzìq 7, 13-14).
Oggi assistiamo a un capovolgimento di mentalità: molti ammettono di temere le pulizie di Pesach e di farne volentieri a meno. Trascorrere la festa in una rinomata località di villeggiatura o di grande interesse culturale in un albergo “specializzato” e dotato di ogni comfort è diventato un fenomeno ancora poco conosciuto nelle nostre Comunità, pur manifestandosi ormai anche a pochi passi da noi: per Pesach 2019, l’ultimo prima della pandemia, ho calcolato che solo in Italia sono state attive non meno di venti strutture del genere. Le famiglie chiudono casa senza doversi preoccupare della preparazione della festa, mentre agenti di viaggio dedicati e supervisori della kashrut ne derivano il loro sostentamento. Ora che un altro Pesach è trascorso, possiamo ragionare su questo fenomeno a mente fredda.
A ben vedere esso si manifesta tutto l’anno, sia pure con accenti diversi. Quand’ero giovane i “religiosi” si distinguevano dai “laici” anzitutto per la loro partecipazione assidua alle Tefillot nel Bet ha-Kenesset. Oggi non è più così necessariamente. Ho constatato che persone considerate religiosamente impegnate preferiscono affidare la propria connotazione ad altre manifestazioni peraltro non meno importanti della vita ebraica come l’osservanza della kashrut e dello Shabbat, ma in Sinagoga si vedono poco, tardi o mai. Perché? Posso solo formulare delle ipotesi. Oggi viviamo in un mondo sempre più complicato ed esigente. Si cerca di evitare l’assunzione regolare di impegni che non siano indispensabili per il nostro tornaconto economico. E la frequentazione del Bet ha-Kenesset è certamente uno di questi. Dopo una settimana di lavoro intenso e stressante, doversi alzare presto anche di Shabbat e di Yom Tov costa una fatica non indifferente.
Alcuni giovani padri adducono a pretesto della loro assenza l’incombenza di doversi occupare dei propri pargoli. Da che mondo è mondo, questo problema è sempre esistito, ma in altri tempi era evidentemente affrontato in modo diverso. Il Talmud afferma che il merito delle donne in relazione alla Tefillah consiste proprio nel fatto che non solo permettono, ma incoraggiano i loro mariti e i loro figli a recarsi al Bet ha-Kenesset (Berakhot !7b)! Oggi una proposta del genere viene recepita come insostenibile e non politically correct. Anche la signora lavora durante la settimana e ha diritto al suo riposo al pari del marito. Ciò comporta un’equa divisione degli stessi compiti! Peccato che il Bet ha-Kenesset si basi su regole differenti e che una delle istituzioni fondanti della vita collettiva ebraica rischi di derivarne dei danni irreparabili. Basterebbe forse un po’ più di duttilità e buon senso nel ripartire gli orari in famiglia in maniera che papà possa prender parte al Minian.
L’edonismo contemporaneo bussa anche alle porte delle nostre Sinagoghe. E con esso l’individualismo sfrenato che costituisce una pesante minaccia per la vita famigliare e comunitaria. Che ce ne accorgiamo o meno, operiamo costantemente delle scelte e tendiamo ad escludere persino dalla nostra vita spirituale le cose che percepiamo come meno piacevoli e appaganti, o più faticose. Eppure i Pirqè Avot, che non a caso leggiamo in particolare fra Pesach e Shavu’ot, ci insegnano invece che “in funzione della sofferenza sarà la ricompensa” (5, 22). R. Shimshon Nachmanì di Reggio Emilia commenta (Toledot Shimshon ad loc.) che sotto questo profilo il nostro rapporto con il S.B. è diverso dalla relazione economica che abbiamo con il nostro coniuge. La Halakhah sancisce il dovere del marito di mantenere la moglie e in cambio gli attribuisce il diritto sugli eventuali proventi lavorativi della consorte: se tuttavia lei decide di mantenere la sua indipendenza economica rinunciando al sostegno del marito ne ha diritto (Ketubbot 58b). Non così per il popolo d’Israel rispetto al S.B. La Torah specifica che chi si astiene dal fare il bene non si limita a rinunciare alla Divina ricompensa, ma viene punito (Qiddushin 61b sulla base di Yesha’yahu 1, 19-20). Lo sforzo con cui ciascuno di noi affronta la Torah e le Mitzwot ha un valore di per sé. “Ecco quanto è buono e dolce…” (Tehillim 133, 1): non limitiamoci al dolce, cerchiamo anzitutto il buono!

Rav Alberto Moshe Somekh

(24 aprile 2022)