L’ideologia del sospetto

Francamente non può stupire il riscontro per cui non pochi segmenti del piccolo universo No Vax (quelli della «dittatura sanitaria» e del Green Pass come Stella di David nonché delle casacche del deportato da indossare nei cortei) si siano riposizionati sul versante dell’antagonismo all’Ucraina o, per meglio dire, della malcelata simpatia nei confronti di Vladimir Putin. Il tutto condito dietro richiami tanto maniacali quanto ipocriti al No War, declinato nei termini per cui se l’aggredito si arrendesse la guerra terminerebbe. Monsieur Jacques II de Chabannes de La Palice (il signor Lapalisse, per capirci) non avrebbe potuto dire di meglio. Tuttavia, più che di una convinta scelta ideologica di campo, francamente non plausibile (ossia impossibilitata, posto i preesistenti vincoli culturali e intellettivi) in molte bocche che si aprono solo per addentare l’aria, è forse meglio comprendere quali siano le vere linee di continuità che si rinnovano tra una “battaglia” e l’altra, nel nome dell’opposizione non solo alla volontà della grande maggioranza di persone del nostro mondo ma allo stesso buon senso dei più. In quanto le logiche settarie di nicchia, in questo come in altri casi similari, sono all’opera, generando una coesione interna a gruppi che si posizionano su un unico crinale, quello dal quale ripetono ossessivamente il mantra della loro presunta alternatività. Così per i rifiuto dei vaccini, al medesimo modo per la guerra i corso. Si tratta dello scimmiottamento di un atteggiamento critico, del quale finge di assumere – e quindi di indossarne – le vesti, quando la radice effettiva di un tale modo di agire riposa semmai nel rifiuto del principio di realtà. Ovvero, del capovolgimento della realtà medesima, alla quale vengono contrapposti i propri pregiudizi, eletti a sistema totalizzante di interpretazione della società così come della vita. Propria ed altrui. Al pari di qualsiasi costrutto paranoide, una tale condotta si dota di una sua apparente razionalità, completamente impermeabile a qualsiasi contro-lettura critica. Non di meno, così facendo – e quindi rafforzandosi sulla base della ripetizione dei medesimi schemi, che si giustificano da sé, auto-convalidandosi per il fatto stesso che vengano reiterati (un po’ come colui che guardandosi allo specchio, esclusivamente per rimirarsi, osserva, gratificandosi della propria immagine: “quanto sono bello!”) – ne deriva, non di meno, la convinzione che i propri fantasmi siano invece il paradigma di un’interpretazione anatomica dei rapporti di potere. Quest’ultimo passaggio viene vissuto, nella sua sostanziale demenzialità, come parte di un più generale approccio antagonistico nei confronti soprattutto di una collettività descritta come un insieme di ignavi e di incoscienti. Si tratta di un processo, quello per cui ci si isola e poi ci si arrocca in un totale isolamento, dove tutto quello che arriva dal di fuori della propria camera di risonanza – condivisa esclusivamente con i sodali, ovvero gli adepti di quello che diventa una sorta di culto iniziatico – è filtrato attraverso le categorie di un pensiero preconcetto, tale poiché completamente anestetizzato riguardo alla capacità di divenire invece oggetto esso stesso di sé. Ossia, di osservarsi dal di fuori per meglio comprendersi. Il pensiero che si pensa è, infatti, l’unico antidoto ai fideismi fanatici, di qualsiasi genere essi siano. Non a caso, certe frange antagoniste sono incapaci di pensare oltre il proprio perimetro identitario. Ne sono completamente arroccate e il bisogno di dotarsi di una causa alla quale aggrapparsi testimonia non della bontà della causa medesima ma dell’investimento emotivo, che si trasforma in massimalismo, radicalismo e spietatezza, che su di essa viene fatto. Il vero movente – quindi – non è il suo contenuto, l’oggetto che la compone, bensì la foga con la quale chi si associa ad una visione capovolta della realtà porta avanti le sue istanze: che coincidono con la rabbiosità attraverso le quali le esprime. Il fondamentalismo, di ogni genere e natura, corrisponde essenzialmente a ciò. Non importa dietro (o dentro) quale involucro si presenti. Sia ben chiara una cosa, a questo punto del discorso: l’atteggiamento al medesimo tempo fazioso e oltranzista di quei segmenti dell’opinione pubblica che hanno fatto dell’irragionevolezza ideologica il fuoco della loro comunicazione, nulla ha a che fare con la necessità, invece inderogabile, di discutere apertamente di ciò che sta avvenendo non solo nello scenario internazionale ma anche dentro le nostre democrazie. Poiché anni di pandemia e, adesso, il tempo della guerra in Europa, stanno contribuendo a modificarne le fisionomie. Per l’appunto, si pone l’esigenza di capire come stiamo cambiando le relazioni collettive, come stiano mutando i rapporti sociali, quindi gli spazi di espressione, di giustizia, della libertà comune, delle stesse relazioni interpersonali. Proprio per questo è inaccettabile il fatto che una parte della comunicazione pubblica sia occupata da chi sciorina ossessivamente, come una giaculatoria, le proprie “verità” incontrovertibili e insindacabili, trasformandole nello spettacolo della loro manifestazione. Poiché ciò che ne deriva, per parafrasare Sergio Germani quando parla della disinformazione organizzata dal Cremlino, è che «l’idea della verità [sia] irrilevante. Anzi, un obiettivo della disinformazione russa di oggi è sovvertire il concetto di “verità” e accreditare l’idea che non esiste una versione “vera” degli eventi, allo scopo di paralizzare il processo decisionale del target cui si mira. Quindi, la disinformazione russa oggi mira non tanto a prima parte persuadere il pubblico di destinazione a credere a una tesi precisa, ma piuttosto punta a creare confusione cognitiva, a mettere in dubbio le narrazioni occidentali, a relativizzare e screditare il concetto di “verità” facendo passare l’idea che esistano “molteplici verità” e che tutta l’informazione è manipolata, da qualunque parte essa provenga». L’alternativismo cialtrone di chi alimenta una subcultura del sospetto e del complotto è, d’altro canto, l’alleato migliore dei sistemi di potere consolidati, sviando le collettività dai veri problemi e trasformando qualsiasi legittima critica dello stato esistente delle cose in una delirante fantasia, quest’ultima suggello della concreta impotenza di chi la fa propria.

Claudio Vercelli

(24 aprile 2022)