Il 25 Aprile a Venezia
“Non diamo la libertà per scontata”

Il 25 Aprile “più difficile tra quelli che abbiamo trascorso e commemorato negli ultimi settantasette anni” a detta del presidente della Comunità ebraica di Venezia Dario Calimani, intervenuto stamane in Campo di Ghetto Novo. “Venti di guerra si stanno affacciando alle porte del nostro mondo, e forse hanno già superato la soglia. Le certezze di cui ci siamo appagati per tanto tempo – il suo allarme – sembrano crollare tutto attorno a noi in questi giorni”.
Oltre a Calimani, di cui riportiamo di seguito l’intervento, sono intervenuti Giulia Albanese per conto dell’Istituto della Resistenza locale e l’assessore comunale Massimiliano De Martin. Era tra gli altri presente il prefetto Vittorio Zappalorto.

Quello di oggi è il 25 aprile più difficile fra quelli che abbiamo trascorso e commemorato negli ultimi settantasette anni. Venti di guerra si stanno affacciando alle porte del nostro mondo, e forse hanno già superato la soglia. Le certezze di cui ci siamo appagati per tanto tempo sembrano crollare tutto attorno a noi in questi giorni.
Ci sono diversi motivi per cui ogni anno ci ritroviamo a celebrare il 25 aprile.
Ci ritroviamo innanzitutto per ripensarne il significato, per ripensare la devastazione e l’orrore a cui ci hanno portato il nazismo e il regime fascista, il pregiudizio, l’odio e il sopruso sparsi a piene mani dalla dittatura fascista; le libertà e i diritti negati, la discriminazione resa prassi ordinaria per dividere la società e additare con facilità alla maggioranza la vittima predestinata da mandare a morte fra l’indifferenza dei più.
Ci ritroviamo dunque per dimenticare e per non perdere coscienza della nostra libertà e del suo valore, e ci ritroviamo per onorare coloro che ci hanno permesso di godere di questa libertà, con la lotta e in molti casi con il sacrificio della vita, e ci ritroviamo, infine, per affermare che la libertà di cui godiamo è un valore e un diritto non solo per noi.
Non ci si stancherà mai di affermare che questo nostro ritrovarsi insieme, nelle nostre piazze, davanti ai nostri monumenti, dev’essere una ritualità sostanziata, la nostra presenza qui non può accontentarsi di discorsi di circostanza e di un minuto di silenzio chiuso da un applauso, per sentirci uniti per un breve attimo e poi ritornare indifferenti alle nostre tante divisioni. Le nostre commemorazioni e le nostre celebrazioni non possono ridursi a un puro rito, significherebbe accettare l’affievolirsi della memoria, ridurre al silenzio i nostri principi, i nostri ideali e i valori stessi su cui, dalla liberazione in poi, si è fondata la nostra società. Nel ritrovarci rinnoviamo la coscienza. Se ha ancora senso riprodurre anno dopo anno il percorso del martirio della Resistenza e costringere il nostro pensiero a rivivere la memoria di chi si è sacrificato è per non lasciarci alle spalle il significato e il valore di quella lotta e di quel sacrificio come se fossero un fardello di cui liberarci. Ed è invece la storia su cui abbiamo costruito la nostra storia e la nostra libertà di oggi.
Il pericolo di questo nostre celebrazioni e commemorazioni è che le si dia per scontate, che le si consideri momenti dovuti al riconoscimento del passato, che non si riesca ad attualizzare la storia del nostro paese, e che non la si riconosca come momento fondante del nostro presente. Sarebbe la realizzazione migliore dell’auspicio dei nostalgici del fascismo: appiattire e svuotare di significato la storia che ci ha portato sin qui, disconoscere il valore e l’impegno di chi si è battuto per liberarci di un regime intollerante, oppressivo e dittatoriale. Sarebbe darla vinta ai tentativi di riduzionismo, e a chi afferma che l’ideale della Resistenza vale, agli occhi dell’oggi, non più dell’ideale scellerato del fascismo e della Repubblica di Salò.
I morti sono tutti uguali, ma da vivi sono stati ben diversi. Una parte si è data da fare per portare morte e distruzione, odio e intolleranza, asservimento e confino. Altri si sono battuti in nome della libertà da tutto questo, una libertà che fosse anche giustizia e umanità per tutti i cittadini allo stesso modo.
Gli ebrei hanno pagato un po’ più degli altri la dittatura, e non per questo abbiamo mai chiesto pietà o privilegi. Abbiamo sempre fatto il nostro dovere di cittadini italiani e continueremo a farlo. La Resistenza stessa ha visto in prima linea ebrei di ogni età. Franco Cesana, espulso da scuola a sette anni in quanto ebreo, è stato il più giovane partigiano d’Italia. Rimase ucciso a tredici anni, in provincia di Modena, in uno scontro con i tedeschi.
Anche noi qui a Venezia abbiamo la nostra storia di emarginazione, di deportazione e di morte. La caccia all’ebreo è stata anche qui a Venezia l’incubo dei nostri nonni e dei nostri genitori. Ebrei rastrellati da case, ospizi e ospedali, massacrati ad Auschwitz, gassati e passati per il camino. 254 ebrei veneziani deportati ai campi di sterminio, molti da questa stessa Casa Israelitica di Riposo. Di loro soltanto otto ritornarono. Quel monumento di legno riporta i nomi dei 246 sterminati.
I persecutori sono stati tedeschi e, accanto a loro, cittadini italiani come noi, fascisti convinti e collaborativi. Volonterosi carnefici.
Chi non ama oggi questa nostra libertà riconquistata, chi non ama il 25 aprile oggi è altrove. A Predappio si commemorano altri ideali. Le assenze sono molte, e sono troppe. Anche noti rappresentanti delle istituzioni sono soliti disertare le celebrazioni del giorno della Liberazione per adunarsi con camerati nostalgici al canto di Faccetta nera ed esibendo il saluto romano di triste memoria. Si dichiarano amici degli ebrei vivi, ma sono anche nipotini ed eredi convinti di chi ha deportato e sterminato. E mai si sono sognati di rinnegare i valori infami del fascismo.
Quando, ai fini di una riconciliazione del paese, ci viene rimproverato di non voler condividere la memoria, una condivisione che si va invocando dalla fine della guerra, bisognerebbe chiedere ai nostalgici di Predappio quale memoria mai potremmo condividere insieme. La memoria delle libertà conculcate? la memoria delle criminali conquiste coloniali? la memoria di una guerra che ha diviso il paese? o la memoria dei nostri parenti mandati ad Auschwitz?
Come italiani, ci accolliamo senza esitazione di fronte al mondo la responsabilità collettiva del ventennio, ce la accolliamo vergognandocene non poco, ce la accolliamo per denunciarla e condannarla: è una responsabilità che fa parte della storia del nostro paese, purtroppo, e non possiamo scaricarcene, non c’è modo di addossarla a qualcun altro. E tuttavia dobbiamo riconoscerla come un capitolo infamante e infame della nostra storia, da deplorare e di cui vergognarsi. Inutile assolversi grazie ai giusti che hanno aiutato e salvato. Molti di più sono stati coloro che hanno denunciato e venduto per poche lire degli innocenti mandati a morte. Molti di più sono stati gli indifferenti che si sono voltati dall’altra parte fingendo di non vedere e di non sentire, abbassando chiudendo le imposte o abbassando le tapparelle.
La storia della Resistenza corre il pericolo della negazione e della minimizzazione, ma corre anche il pericolo della strumentalizzazione. Come accade ormai ogni giorno per la Shoah, analogie improprie e strumentali abbondano, spesso per caricare di valore fenomeni e momenti storici ben diversi, anche con il rischio di privare la Resistenza stessa del suo vanto e dei suoi meriti. Nella storia le analogie non valgono se non per falsare la realtà e i rapporti. Valgono forse di più le distinzioni e le differenze.
Di questo panorama di rischi fa parte quanto accade ormai da qualche anno a Roma e a Milano in particolare, nell’indifferenza o nell’impotenza degli organizzatori locali, quando sfilano i rappresentanti della Brigata Ebraica (che non sono i rappresentanti di Israele) e sono fatti oggetto di scherno e di insulti, anche di deciso carattere antisemita, come se la loro presenza fosse abusiva alla festa della Liberazione. La Brigata Ebraica, Jewish Infantry Brigade Group, si formò fra le file dell’esercito inglese reclutando ebrei della Palestina mandataria, quando lo Stato d’Israele ancora non esisteva, e partecipò attivamente alla Resistenza. Gli ebrei della Brigata vennero in Europa per combattere il nazismo, ed ebbero i loro morti e i loro feriti. Volontari a tutti gli effetti, per riconquistare una libertà che non era la loro. Oggi questi ebrei vengono dileggiati e offesi da chi la Resistenza al nazismo e al fascismo non ha idea di che cosa sia stata.
La festa della Liberazione è certamente festa di tutti gli italiani, se si riconosce che liberazione significa liberazione dal regime fascista, oltre che dall’orrore del nazismo. Se si riconosce che liberazione significa raggiungimento della pace. Anche se si tratta a volte di una pace imperfetta, di una pace che non sempre è giustizia sociale per tutti.
In questi giorni, di pace si parla molto, e ancora una volta, come forse è normale, ci si divide sulle modalità di raggiungimento della pace. Come la libertà, la pace è un obiettivo faticoso, un obiettivo che non si può raggiungere separatamente dalla libertà. Senza libertà non c’è pace, non c’è pace quando la libertà è negata e soffocata. La pace senza la libertà è pace mutilata, è pace offesa.
Non c’è pace che non si nutra di libertà.
La tragedia dei nostri giorni, è l’incubo delle nostre notti. Non ci si sente di proporre analogie con la Resistenza, ma si può ugualmente prendere posizione contro un’ingiustizia, contro un’invasione, contro un massacro, contro le donne stuprate, contro i bambini e i civili innocenti giustiziati per le strade. Poco conta mettersi d’accordo sulle definizioni, si rischia di cadere vittime delle ideologie e di a priori faziosi. Quel che è certo è che il pacifismo non è silenzio e non è equidistanza. Pacifismo non è indifferenza alla tragedia di una nazione invasa. Il muro di Berlino è caduto nel 1989, ma qualche mattone sembra essere rimasto ancora in piedi.
E non ci interessa condannare un paese perché ha nel suo passato, una storia di antisemitismo che sentiamo riguardarci da vicino. Non cediamo a questa ideologia demagogica, perché se così facessimo dovremmo allora condannare l’Italia di oggi per il suo fascismo, la Germania di oggi per il suo nazismo, la Francia di oggi per Pétain, la Spagna di oggi per Franco, e mi fermo qui.
Ciò di cui siamo testimoni in questi nostri giorni ci appare fuori dal tempo e dalla storia. E ci riconosciamo impotenti nel nostro declamare principi e valori e diritti. Siamo solo consapevoli che il male non è mai banale, ma è colpevole, è spietato ed è disumano. Non riconosce valori, non riconosce diritti, non riconosce umanità e non conosce il significato della libertà.
Il nostro 25 aprile vale se riusciamo a riattualizzare, giorno dopo giorno, il valore e il significato della libertà riconquistata, riconoscendo anche agli altri il diritto a vivere liberi.
A noi, che disumani non vogliamo essere, rimane poi la possibilità di accogliere, di ospitare e di assistere, di tendere la mano a chi ha bisogno senza attenderci ricompensa né gratitudine. Sappiamo qual è il nostro dovere di persone e cittadini responsabili e liberi, se vogliamo essere degni di far parte di questo paese e del genere umano. Un genere umano migliore.
Buon 25 aprile.

Dario Calimani, presidente Comunità ebraica di Venezia

(25 aprile 2022)