L’età delle tenebre

Scrivemmo, all’inizio della nostra disamina sui due versi del quinto Canto del Paradiso (80-81) posti sulla copertina de La difesa della razza (“Uomini siate, e non pecore matte,/ sì che ‘l giudeo tra voi di voi non rida!”), che ci saremmo dovuto chiedere due cose, nettamente distinte l’una dall’altra: cosa, con quei versi, volesse dire Dante, e cosa, invece, i redattori del quindicinale razzista volessero far credere che egli volesse dire.
Avendo provato a dare risposta alla prima domanda, resta ora da affrontare la seconda, la risposta alla quale appare più semplice. È evidente, infatti, che l’immagine del giudeo che, “tra voi”, ride “di voi”, dà l’idea della presenza di un corpo separato dal resto della società, nascosto e maligno, che nutre sentimenti malevoli (odio, invidia, scherno…) verso il resto della popolazione, sempre pronto a godere nel constatarne le debolezze e i difetti. I guai degli ‘ariani’ sarebbero per gli ebrei motivo di soddisfazione, se stanno male essi stanno bene, e viceversa. Gli ebrei, insomma, come un “popolo incistato”, una serpe nel seno, un virus nascosto, bieco e oscuro.
Naturalmente, tale immagine è del tutto estranea alla visione dantesca. Ma, per meglio comprendere lo stravolgimento del pensiero del poeta, è bene considerare quale profonda trasformazione si sia consumata, tra l’Italia degli inizi del XIV secolo, quando venne scritta la Commedia, e quella degli anni ’30 del secolo scorso, quando vide la luce l’immondo fogliaccio.
Cominciamo dalla seconda. Ai tempi del fascismo, il nostro Paese apparteneva a quella parte del mondo occidentale nella quale, a seguito dell’Illuminismo (e il suo equivalente ebraico, la cd. “haskalà”, inaugurata da Moses Mendelssohn), della Rivoluzione Francese, dei moti risorgimentali e della Grande Guerra, le minoranze ebraiche si erano, nella grande maggioranza, pressoché integralmente assimilate, nei costumi, alla maggioranza della popolazione cristiana. Gli ebrei vestivano esattamente come gli altri, facevano gli stessi lavori, parlavano la medesima lingua, frequentavano gli stessi luoghi. I matrimoni cd. ‘misti’ erano molto frequenti. C’erano delle differenze, certo, ma un quadro della loro consistenza ci è offerto, con parole molto chiare, nella testimonianza di Primo Levi. Solo Auschwitz avrebbe radicalmente e irreversibilmente cambiato la sua percezione: “Ormai la stella di Davide me l’hanno cucita per sempre, e non solo sul vestito”. Certo, Levi ammette che il senso di appartenenza ebraica, nella sua famiglia, era piuttosto blando, e la sua descrizione non si adatta a tutti gli ebrei italiani del tempo. È un dato di fatto, però, che anche gli ebrei molto religiosi e osservanti, così come i militanti sionisti, si sentivano tutti ed erano da tutti considerati come degli italiani “a tutti gli effetti”, le cui vite si intrecciavano e si mescolavano tranquillamente con quelle dei cattolici. Gli episodi di antisemitismo c’erano, ma erano decisamente marginali. In altri Paesi (come la Russia, l’Ucraina, la Polonia e altri) non era così, ma questa era la situazione di gran lunga prevalente in Italia, in Francia, nel Regno Unito, negli Stati Uniti, così come lo era stata, fino al 1933, anche in Germania.
Al tempo di Dante la situazione era del tutto diversa. La religione non era considerata un fattore privato, interiore, ma era il primo, fondamentale segno di appartenenza alla comunità. Gli atei non esistevano (o, se esistevano, non conveniva certo che lo dichiarassero), e tutti gli uomini, in Europa, dovevano necessariamente appartenere a una delle tre grandi religioni monoteiste: o erano cristiani, o ebrei, o islamici. E tali identità dovevano necessariamente essere palesi, manifeste e riconoscibili. Non era ammissibile dichiararsi “mezzo cristiano”, “mezzo ebreo”, o “libero pensatore”. Erano cose che non esistevano, così come non esistevano i matrimoni misti: per sposare un appartenente a un’altra fede era necessario che uno dei due abiurasse e si convertisse, altrimenti niente. I ghetti, in senso fisico, ancora non esistevano, ma già c’erano a livello mentale.
Ciò non vuol dire che gli ebrei venissero sempre trattati male (i periodi peggiori sarebbero venuti dopo), ma è certamente vero che essi erano considerati appartenenti a una comunità diversa, un “popolo in un popolo”. Di qui l’espressione di Dante, che riflette la mentalità corrente nell’Italia del 1300, non del 1938.
Ma i redattori de La difesa della razza, per abbindolare i lettori, prendono l’Italia dei loro tempi, con tutte le radio, le automobili e gli aeroplani, e, con un rapidissimo “flash back”, la fanno tornare nel Medio Evo. Ma un Medio Evo molto diverso da quello di Dante, che, tra tante cose brutte, era pieno di arte e di poesia. Il loro Medio Evo è un’età delle tenebre, simile alla “buia campagna” (Inf. III. 130) nella quale “Caron dimonio” (III. 109) sarà stato certamente ben lieto di accogliere le loro “anime prave” (Inf. III. 84).

Francesco Lucrezi

(27 aprile 2022)