Machshevet Israel
Leggere il midrash

Esistono buone introduzioni al midrash in italiano. Penso a quella un po’ tecnica di Günter Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash (Città Nuova 1995) e a quella più filosofica – e che estende il ‘genere’ fino a noi – di David Banon, Il midrash. Vie ebraiche alla lettura della Bibbia (San Paolo 2001), oltre a quella più divulgativa della nostra Giacometta Limentani, Il midrash: come i maestri ebrei leggevano e vivevano la Bibbia (Paoline 1996). Mancava ad oggi un’opera che affrontasse il tema in chiave di critica e teoria letteraria; ma ora abbiamo a disposizione un simile sofisticato lavoro, ambizioso e intenso, dal titolo Leggere il Midrash (tr. di M. Pina Scanu, Paideia, Torino 2021), che però nell’originale inglese suona Intertextuality and Reading the Midrash (apparso negli States oltre trent’anni fa, nel ’90 e riedito nel ’94: la scholarship ad quem risale a tali date). Ne è autore lo storico e talmudista israelo-americano Daniel Boyarin, classe 1946, che gode di una certa popolarità e non solo tra gli addetti ai lavori. In italiano di lui finora c’era solo Il vangelo ebraico (Castelvecchi 2012, titolo anche qui impreciso, perché in inglese è al plurale). Altri due suoi libri che hanno fatto molto discutere sono: Carnal Israel: Reading Sex in Talmudic Culture, del ‘93, e dell’anno successivo A Radical Jew: Paul and the Politics of Identity. Si può dissentire (chi le abbia ponderate) dalle sue tesi, ma le opere qui citate bastano ad assegnargli un posto tra gli studiosi più innovativi nello spettro del pensiero ebraico contemporaneo.
Dunque, il midrash. Ne ho appena accennato come fosse un ‘genere’, ma alla fine della lettura di questo studio, ci si pensa due volte prima di ripetere che si tratta di un mero ‘genere letterario’. Cosa in effetti sia midrash (a prescindere dal fine, halakhico o parenetico, per cui è usato) – se tecnica esegetica, struttura ermeneutica, arte omiletico-retorica oppure una finzione narrativo-poetica, come tende a farci credere Maimonide – Boyarin cerca di dirlo a partire da un serrato confronto con lo studio classico, che è un must citare, in materia: Darkhè ha-aggadà, di Isaak Heinemann [Isaak alla tedesca], scritto in ebraico nel 1949 (3a ed.1974), un confronto sì costruttivo ma che dapprima deve decostruirne i presupposti romantico-positivistici eppoi cercare di recuperarli, in una visione più ampia e complessa, sulla base delle ‘nuove teorie letterarie’ elaborate da Mikhail Bakhtin, Jacques Derrida, Julia Kristeva e, in ambito più specifico, da Geoffrey Hartman e Gerald Bruns. Ne sortisce una teoria del midrash dialogica e polifonica, tutt’altro che ‘unificante’ ma che nondimeno si oppone a ogni approccio dicotomico o dualista, perché se c’è una peculiarità del metodo (più che del genere) midrashico è esattamente il suo rifiuto del dualismo di influenza greca, che invece sta alla base dell’altro metodo ebraico (a sua volta metodo, non un genere) ossia l’allegoresi, via seguita dal giudaismo ellenistico ad Alessandria, preclaro in Filone e, secondo Boyarin, anche in Paolo (dunque alla base della forma cristiana che ha vinto la competizione tra i vari cristianesimi allora possibili).
Secondo Boyarin, una nuova teoria del midrash deve muovere da e incentrarsi sul concetto, elaborato come tale dalla semiotica ma praticato da sempre nel giudaismo rabbinico, dell’intertestualità – l’uso del Testo per comprendere il Testo – nelle sue diverse accezioni (che qui manca lo spazio di analizzare) che tengono sempre in tensione l’istanza epistemica (la comprensione oggettiva del testo) e l’istanza storicizzante (l’applicabilità soggettiva di quel testo). Di più, si tratta anche di partire dal riconoscimento che “la lettura inter-testuale del midrash è uno sviluppo delle strategie di interpretazione intra-testuale che già la Bibbia [il Tanakh] manifesta. La stessa superficie non sistematica e frammentaria del testo biblico [immagine cara a un altro grande studioso come James Kugel di Bar Ilan/Harvard, vale a dire ripetizioni e contraddizioni, da sempre rimarcate e spiegate come significative dai maestri] è poi una codificazione della sua intertestualità, ed è appunto questa che il midrash interpreta. Il dialogo e la dialettica dei rabbi nel midrash – conclude Boyarin – saranno intese come letture del dialogo e della dialettica del testo biblico”. Ne deriva, se capisco (cosa non scontata), che il midrash costituirebbe la continuazione della Bibbia oltre la Bibbia stessa, vivendo delle stesse lacune e delle stesse frammentazioni in quanto prosieguo della medesima struttura dialogico-dialettica (persino nel canone ebraico i ‘libri’ più recenti sono midrashizzazioni di quelli più antichi). Banco di prova di questa nuova teoria, che orchestrizza molti altri studi e registri e intuizioni, è qui una rivisitazione della Mekiltà de-rabbi Ishmael, il midrash (secondo tutti gli studiosi) più antico su Shemot e sull’uscita di Israele dall’Egitto (l’ho letto intenzionalmente, ammetto, nella settimana di Pesach). Leggere come lo Shir hashirim, il Cantico dei cantici, sia in fondo un lungo mashal – frettolosamente tradotto come ‘parabola’ – e perché esso giochi un ruolo cruciale nella struttura della Mekiltà è così sorprendente da non poter essere svelato… pena togliere ai pochi ma curiosi lettori il piacere del chiddush, della scoperta personale. 

Massimo Giuliani, università di Trento