Michel Kichka, una matita
per non dimenticare 

La notizia, in anteprima assoluta, arriva alla fine di quasi due ore intense in cui il disegnatore belga-israeliano Michel Kichka ha incontrato alcune classi delle scuole ebraiche di Milano, Roma e Torino. Dal suo primo graphic novel, uscito nel 2012 e pubblicato in Italia da Rizzoli Lizard con il titolo La seconda generazione. Quello che non ho mai detto a mio padre è stato tratto un film di animazione, che verrà presentato al festival di Cannes tra poche settimane, per arrivare nelle sale in autunno. “Si intitola ‘My father’s secrets. Lest we forget’, ossia I segreti di mio padre. Per non dimenticare, e per me è un’emozione grande. È una nuova storia, che inizia ora. E mio padre se fosse ancora con noi avrebbe commentato che, ecco, è ancora un’altra vittoria sui nazisti”.
Introdotto da Rocco Giansante, di Yad Vashem, Daniela Dana Tedeschi, presidente dell’Associazione Figli della Shoah, e Sira Fatucci, responsabile per l’area Memoria dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Kichka – uno dei massimi rappresentanti del mondo del fumetto israeliano – ha mescolato lingue e storie, racconti e ricordi. Ha aperto il suo intervento mostrando l’elenco di quelle che considera le sue identità, con una slide intitolata “Fifty shades of identity”: belga di origine, polacco per discendenza familiare, vallone dunque francofono, ebreo, socialista, sionista, nuovo emigrante e ashkenazi – una identità, ha raccontato, che ha scoperto solo al suo arrivo in Israele – studente e marito, padre e nonno, soldato e illustratore così come insegnante ed educatore, pacifista… un mondo multiforme e complesso “come lo è Israele, del resto, come siamo tutti”.
Vissuto in Belgio sino ai diciannove anni, e ora in Israele da quasi cinquanta, nel giorno di Yom haShoah ha raccontato alle decine di ragazzi in ascolto cosa vuol dire appartenere alla seconda generazione, mostrando tavole del suo primo graphic novel mentre ripercorreva la sua storia familiare. Dai primi anni “in una piccola città industriale inquinata e brutta, in cui ero discendente di immigrati polacchi sopravvissuti in mezzo a immigrati prevalentemente italiani polacchi e congolesi” alla sua scoperta di Israele grazie a un viaggio organizzato dall’Hashomer Hatzair fino all’aliyah e alla piena integrazione come israeliano che però sin dal primo momento ha scelto di non lasciare indietro nulla delle proprie origini e della propria storia, Kichka ha saputo introdurre man mano il suo percorso di scoperta delle esperienze del padre durante la Shoah. “Sapevo che i miei nonni erano originariamente polacchi, che erano a un certo punto scappati in Francia, e che la famiglia di mia madre era riuscita ad attraversare il confine con la Svizzera per poi tornare integra in Belgio. Mentre la famiglia di mio padre non è riuscita a sfuggire alla polizia francese. Sono stati arrestati dalla Gestapo nel settembre del ’42 e mandati ad Auschwitz, mio padre aveva solo 16 anni ma era sportivo, forte, ed è stato mandato a lavorare, come anche mio nonno, mentre sua madre e le sue sorelle sono state indirizzate immediatamente alle camere a gas. Ha passato quasi tre anni in nove diversi campi, ed è riuscito a sopravvivere anche alle famose marce della morte, in cui invece è morto mio nonno. Nell’aprile del ’45 era a Buchenwald, alla liberazione del campo è stato rimandato in Belgio, prima in un sanatorio poi in un orfanotrofio, dove è rimasto fino a quella che allora era la maggiore età, 21 anni. Quando si è innamorato di mia nonna una delle prime cose che le ha detto è stata che lui voleva quattro figli, come quattro erano i Kichka che erano morti grazie ai nazisti”.
Un trauma perpetuato dal silenzio del padre dell’autore, talmente pesante da fargli raccontare: “Ero in qualche modo terrorizzato all’idea di avvicinarmi e chiedere cosa esattamente volevano dire i numeri che aveva tatuati sul braccio, così mi sono costruito una mia storia della Shoah, cercando informazioni altrove. Avevo paura di chiedere a lui, non potevo, non osavo parlare della Shoah di fronte a lui, era in un certo senso uno spazio vietato. A volte avevo incubi, per le fotografie che ero riuscito a trovare, cose su cui un ragazzino non avrebbe dovuto posare lo sguardo”. La storia della sua integrazione in classe – nonostante durante le lezioni di religione ai suoi compagni fosse stato additato come “uccisore di Gesù, le sue doti calcistiche lo facevano amare da tutti – e nonostante i silenzi e dei momenti comunque sereni vissuti in famiglia ha poi portato al racconto della nuova vita in Israele, come nuovo immigrato allo stesso tempo integrato completamente e strenuamente attaccato alla propria storia.
Dalla Shoah al suo impegno con Cartooning for Peace – l’associazione internazionale di disegnatori per la pace – e l’impegno per un mondo più equo, più giusto, e che non lasci spazio a ingiustizie e prevaricazioni, la passione per l’insegnamento, e i suoi incontri anche con disegnatori italiani, con particolare apprezzamento per il lavoro di Vittorio Giardino, il racconto ha portato alle ultime visite di suo padre in Israele, dove ora è sepolto dopo aver però conosciuto i bisnipoti.
Prima di salutare i giovani ha voluto ricordare quello che ritiene essere il senso ora della Memoria: “Non è un cognome molto conosciuto, il mio, ovviamente, siamo pochissimi, ma sono comunque responsabile dell’esistenza in Israele di alcuni Kichka. Sono i miei figli e i miei nipoti. È a loro, a voi ragazzi, che lascio ora la responsabilità di raccontare la nostra storia storia. E la responsabilità di costruire il futuro”.

Ada Treves social @ada3ves