Periscopio – La lingua dell’abisso

Dicemmo, aprendo la nostra ricognizione sul tema “Dante e gli ebrei”, che con tale espressione si possono intendere tre cose distinte: come vengano trattati gli ebrei e l’ebraismo (sul piano umano, storico, teologico) nelle opere dantesche, e segnatamente nella Commedia; come le parole del poeta siano state utilizzate, o strumentalizzate, ai fini della raffigurazione degli ebrei e dell’ebraismo; come, infine, gli ebrei, nei vari contesti spaziali e temporali, abbiano fatto riferimento alla poesia dantesca e ai suoi contenuti.
Al di là di questi tre aspetti, di cui, in qualche modo, ci siamo occupati, c’è però un altro significato, molto importante, che può essere dato alla formula “Dante e gli ebrei”, che si può sintetizzare in una domanda: in che modo la parola di Dante è utile, al giorno d’oggi, per potere rappresentare la realtà ebraica?
La domanda, naturalmente, si inscrive all’interno di quella, più ampia, della capacità di un determinato linguaggio di rappresentare una determinata realtà. La lingua, com’è noto, non è solo forma, ma anche sostanza. Chiunque parli e pensi in italiano ha a disposizione il bagaglio fonetico e semantico della nostra lingua per potere formulare i propri pensieri e per cogliere quelli altrui. In questo senso, la lingua italiana, come ogni lingua, ha una fondamentale funzione identitaria. In una commovente intervista rilasciata da Edith Bruck a Emilia D’Antuono, in occasione dell’ultimo Giorno della Memoria, lo scorso 27 gennaio, la scrittrice sentì di rivolgere un pubblico ringraziamento alla nostra lingua, che considerava “la sua casa”: la lingua “nella quale non sono mai stata insultata”. L’orrore da lei vissuto è stato narrato in una lingua da lei amata, in un intreccio misterioso di luce e tenebre.
Ringraziare la lingua italiana, ovviamente, vuol dire ringraziare, in primo luogo, Dante, il suo creatore.
Abbiamo già parlato dello strettissimo rapporto con la Commedia avuto da Primo Levi, il massimo testimone, insieme a Elie Wiesel, della voragine della Shoah. È nei versi di Dante che Levi cerca, nel momento più buio, un impossibile filo di Arianna, un segnale che gli permetta di non smarrire per sempre il significato di parole quali ragione, umanità, pietà, speranza. Il naufragio di Ulisse, nel XXVI Canto dell’Inferno, si moltiplica milioni di volte. Ed è una moltiplicazione, un precipizio che viene descritto con le parole di Dante, sei secoli e mezzo dopo la loro scrittura.
Come solo i grandissimi sanno fare, credo che Dante abbia creato, oltre che una lingua, anche una modalità di espressione di determinati fenomeni umani. Credo che nessuno che voglia descrivere la vendetta, la pietà e la nostalgia possa prescindere da Omero, perché è lui che ha inventato la descrizione poetica di tali sentimenti. Così come nessuno che voglia accostarsi all’idea dell’inconscio possa ignorare Eschilo e Sofocle, e nessuno che voglia rappresentare la gelosia possa non tenere conto di Shakespeare.
Quanto a Dante, le sue parole, indubbiamente, sono fondamentali per la rappresentazione di una molteplicità di valori, sentimenti, percezioni. Su un terreno, però, credo che tali parole siano non solo importanti, ma indispensabili, ed è quello dell’abisso. Intendendo, con tale parola, quel baratro nel quale è impossibile entrare, senza esserne inghiottiti. Dante è riuscito, come nessun altro, ad accostarsi all’abisso, là dove la parola si ammutolisce. Anche egli, come nel racconto del Conte Ugolino, a un certo punto, si arresta, ma tocca, o sfiora, il confine. E questo suo linguaggio estremo si è rivelato indispensabile – come insegna Primo Levi – per potere rappresentare un tipo di abisso che il poeta non poteva conoscere, in quanto si sarebbe presentato seicentoventi anni dopo la sua morte.
Ma è proprio sicuro che Dante, nell’Inferno, non parli della Shoah? La domanda può apparire paradossale, ma non credo che lo sia, dal momento che la forza dell’arte è proprio quella di attraversare il tempo, di rappresentare non solo il passato e il presente, ma anche il futuro. In “Se questo è un uomo” Levi descrive come, all’ingresso di Auschwitz, gli aguzzini avessero fretta di mandare i prigionieri al loro destino di morte, immediata o futura, in quanto erano già in arrivo nuovi convogli, dai quali sarebbero scese nuove ondate di disperati, e bisognava lasciare loro spazio. Ma lo spazio mancava sempre, perché i nuovi arrivati approdavano quando i vecchi non se ne erano ancora andati: “Così sen vanno su per l’onda bruna,/ e avanti che sien di là discese,/ anche di qua nuova schiera s’auna” (Inf. III. 118-120). Primo Levi non cita questi versi danteschi, ma io non riesco a leggere le sue memorie senza filtrarle attraverso la lingua e i versi di Dante, perché è Dante che ha inventato la lingua dell’abisso.
Certo, Primo Levi, Elie Wiesel e tanti altri testimoni hanno spiegato come l’esperienza di Auschwitz sia intrasmissibile, inenarrabile. Nessuna parola, neanche quella di Dante può riuscirci. E tuttavia, saranno proprio le sue parole a spiegarci che esiste un orrore che non può essere descritto. Ed è proprio questo che ci spiega, in modo mirabile, Primo Levi.
Torneremo sul punto nella prossima puntata.

Francesco Lucrezi