La legge ebraica
e l’aggressione all’Ucraina
Il dovere di scegliere

Far riferimento a fonti ebraiche per cercare di stabilire quale posizione si dovrebbe tenere riguardo all’invasione russa dell’Ucraina, se e quanto apertamente schierarsi contro la Russia come ebrei e per quanto concerne Israele come stato, non è agevole. Il popolo ebraico è vissuto in condizioni di oppressione o almeno di sottomissione per lunghissimi secoli e ha dovuto in generale pensare a sopravvivere senza potersi occupare di altro. L’avere voce nella ribalta internazionale è una novità che ci pone di fronte a sfide nuove. È però la nostra memoria storica recente che dovrebbe spingerci a prendere una posizione esplicita e di aperto supporto all’Ucraina, e particolarmente il monito dei sopravvissuti alla Shoà contro l’indifferenza. Ci sono due considerazioni contrarie che si sentono spesso fare al riguardo: la prima di opportunità, secondo la quale è meglio non esporsi in considerazione dei tanti ebrei che vivono in Russia; la seconda di merito, in quanto gli ucraini hanno un pesante passato -e forse non solo un passato- antisemita. Prudenza, dunque. Ma il passo dalla prudenza all’indifferenza è troppo breve. E soprattutto, non siamo chiamati a difendere soltanto dei “santi” bensì in generale le vittime. Così sintetizza rav J. Sacks: “Se qualcuno è nei guai, agite. Non fermatevi a chiedere se si tratta di un nemico o di un amico. Fate come fece Mosè quando vide i pastori maltrattare le figlie di Jetro; o come fece Abramo quando pregò per le genti delle città della pianura” (Non nel nome di Dio, pag. 258). Proprio a proposito di Jetro (Yitrò), troviamo nel Talmud un midrash estremamente significativo: “In tre furono presenti al consulto in cui il Faraone decise di perseguitare il popolo ebraico: Bilàm, Iyòv e Yitrò. Bilàm che consigliò di affliggere il popolo ebraico venne ucciso; Iyòv che rimase in silenzio fu condannato a patire sofferenze; Yitrò fuggì e per questo meritarono alcuni dei suoi discendenti di sedere nella Lishkàt haGazìt (ovvero fecero parte del Grande Sinedrio)” (TB Sotà 11a). Non vogliamo assomigliare a Bilàm, e neanche a Iyòv. È Yitrò l’esempio, l’uomo che ebbe il coraggio di opporsi al tiranno e che per questo fu costretto a fuggire. È un esempio che può costare, e non poco, ma è l’unico virtuoso.
Altro argomento che va smontato è quello dell’ebraismo come “religione della pace”. La nostra tradizione è orgogliosamente ricca di insegnamenti che sottolineano l’importanza della pace. Ma non perché ci sia un rifiuto assoluto e pregiudiziale della guerra. Al contrario, quando la guerra è necessaria, si combatte. Così fece Abramo, così Giacobbe, così David – esempio di colui che sapeva essere grande guerriero e sensibilissimo re – così gli ebrei ai tempi di Ester, e poi i Maccabei fino ai giorni più recenti. È vero, verissimo, che non celebriamo mai la vittoria, celebriamo sempre la salvezza. Ma questa è un’altra storia. E non si tratta “solo” di Aggadà. Le “norme dei re e delle guerre” sono halakhà pratica, codificata fin da Rambàm.

Rav Michael Ascoli

(Nell’immagine, il disegno del fumettista francese Joann Sfar, che in queste settimane ha raccontato con i suoi lavori l’aggressione russa dell’Ucraina)