Il decoro e l’indecenza
C’è una guerra che si combatte in città ridotte a campi di battaglia e c’è una guerra mediatica che si svolge sul fronte delle immagini e delle loro interpretazioni. Non si tratta solo di una questione di propaganda, ad oggi oramai la forma più elementare di comunicazione eterodiretta e manipolatoria. In quanto siamo oramai giunti ad una sorta di babele delle rappresentazioni. La raffigurazione dello scenario bellico, inteso come costruzione di un contesto di impressioni, suggestioni e quindi di idee, destinate come tali ad influenzare l’andamento materiale del confronto attraverso il condizionamento dell’opinione collettiva su di esso (e del giudizio sui suoi moventi), peraltro non è certo una prerogativa dei tempi correnti. Già nell’antichità si consumavano guerre parallele tra fatti e immagini, atti e parole. Gli uni e le altre si sovrapponevano. La guerra è pressoché da sempre la miscela di tali elementi. Non di meno, è riscontro che non data ad oggi il fatto che i conflitti bellici tirino fuori quel peggio di se stessi che alligna in molti, tale – evidentemente – poiché in attesa da sempre di potersi manifestare appieno. Al pari, invece, di quanto solleciti la passione, l’identificazione e la solidarietà di altri. Il confronto russo-ucraino, che irrompe nelle nostre case quotidianamente, non sfugge a questa “logica”, se in tali termini la si intenda chiamare. Così come è parte di una tale disposizione di cose e di menti la frequente divisione – e il conseguente riallineamento – in parti opposte rispetto ai contendenti. Il tutto avvolto nel rimando a granitiche certezze e nel richiamo a insindacabili principi. La guerra delle parole avvince gli spiriti assai di più di quanto non riesca a fare il conflitto delle pallottole nei riguardi dei corpi: nel primo caso, si ricevono e si rispediscono contumelie e improperi a iosa; nel secondo, invece, si cerca soprattutto di evitare il piombo. La premessa appena esposta, in fondo quasi una circonlocuzione, serve esclusivamente per invitare coloro che hanno armato il loro proprio spirito di cercare di non alimentare quella cultura del sospetto che è invece alla radice della delegittimazione non solo altrui ma anche di quelle pratiche comunicative senza le quali non esiste più alcun terreno di mediazione a venire. Così come – ed è una considerazione di corredo, tuttavia non meno importante – di non prendersi troppo in considerazione, ritenendo che il proprio pronunciamento sia qualcosa di prossimo all’ordalia. A quegli oramai assidui frequentatori di scenari e palchi televisivi, dove per l’appunto si svolge la guerra parallela delle immagini e delle prese di posizione, varrebbe forse la pena di prescrivere una maggiore sobrietà di espressione, per non trasformarsi, come invece sempre più spesso accade, in capi della tifoseria mediatica. Alimentando la propria egolatria, di cui si è spesso ben provvisti. Altrimenti il rischio è di fare da serventi non di un principio bensì di un simulacro di idea. L’indecenza altrui, nel qual caso, in fondo diverrebbe solo l’immagine riflessa della propria. Dove alla recita ispirata del grande comunicatore si sostituisce la triste e crepuscolare enfasi del clown del circo del media.
Claudio Vercelli
(8 maggio 2022)