Periscopio – Caronte
Non c’è dubbio che una delle figure più drammatiche e tenebrose della Commedia sia quella di Caronte, il “nocchier della livida palude” (Inf. III.98), incaricato di traghettare le anime dannate al di là del fiume Acheronte, il cui passaggio segnerà per loro il definitivo ingresso nella “città dolente”, da cui non usciranno mai più. Le parole del nocchiero sono spietate, apodittiche, e, tra esse, l’avverbio “mai” pesa come un tremendo macigno, capace di schiacciare per sempre ogni minima illusione o speranza: “Guai a voi, anime prave!/ Non isperate mai vedere lo cielo:/ i’ vegno per menarvi a l’altra riva/ ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo” (Inf. III. 84-87). Le anime dei dannati, a sentire queste parole terribili, vengono prese da uno sgomento infinito: sbiancano in viso, battono i denti e prendono a bestemmiare il nome di Dio, quello dei loro genitori e il momento del loro concepimento, a cui attribuiscono l’origine della loro sventura. Poi, costretti dalla superiore volontà celeste, “forte piangendo”, si riuniscono tutti sulla “riva malvagia/ ch’attende ciascun uom che Dio non teme” (197-108). Ma qualcuno indugia, e allora “Caron dimonio, con occhi di bragia”, lo percuote col remo, avviandolo all’appuntamento con gli eterni tormenti che lo attendono. Così “il mal seme d’Adamo” precipita verso il destino di perdizione che si è guadagnato. Nessuno scampo, nessuna pietà.
Abbiamo osservato, la scorsa puntata, come questa pagina dell’Inferno dantesco appaia richiamata nel racconto che fa Primo Levi dell’ingresso dei prigionieri ad Auschwitz. Anche lì si valicavano le porte dell’Inferno, si spegneva ogni speranza, e i condannati si susseguivano a ondate. Con l’enorme differenza che il terribile castigo dantesco rappresentava pur sempre la realizzazione, per quanto crudele, di una inesorabile giustizia divina: si trattava, infatti, del “mal seme d’Adamo”, che aveva meritato il suo castigo, come conferma la stolta reazione di maledire i propri genitori e il momento del concepimento, anziché riconoscere la propria responsabilità. Quelli in attesa di valicare i cancelli del nuovo Inferno erano invece innocenti, e il loro destino non era stato decretato dalla giustizia divina, ma dalla ferocia di Satana, vestito di panni umani.
Là, il prigioniero Levi incontra un personaggio in cui riconosce la figura di Caronte.
Poco dopo essere sbarcati dal treno, lui e gli altri deportati vedono emergere “nella luce dei fanali, due drappelli di strani individui. Camminavano inquadrati, tre per tre, con un curioso passo impacciato, il capo spenzolato in vanti e le braccia rigide”. Con gesti meccanici di burattini semirotti, persi in lunghe palandrane a righe, sudice e stracciate, si mettono ad armeggiare coi poveri bagagli dei nuovi arrivati. “Noi ci guardavamo senza parola. Tutto era incomprensibile e folle, ma una cosa avevamo capito. Questa era la metamorfosi che ci attendeva. Domani anche noi saremmo diventati così”. Anche “il mal seme d’Adamo”, certamente, nel terzo Canto, aveva capito.
Poi vengono fatti salire su un autocarro, che parte a tutta velocità. “Buttarsi giù? Troppo tardi, troppo tardi, andiamo tutti ‘giù’”. E poi, ci siamo accorti “che non siamo senza scorta: è una strana scorta. È un soldato tedesco, irto d’armi: non lo vediamo perché è buio fitto, ma ne sentiamo il contatto duro ogni volta che uno scossone del veicolo ci getta tutti in mucchio a destra o a sinistra. Accende una pila tascabile, e invece di gridare ‘Guai a voi, anime prave’ ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo denaro o orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è un regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo”.
Il Caronte di Levi, come quello di Dante, fa entrare i condannati nella loro prigione. Ma, diversamente dal secondo, non ha “intorno a li occhi di fiamme rote”, non profferisce sinistri annunci di morte e maledizioni, non picchia nessuno col suo remo. Da questo punto di vista, appare più potente del primo Caronte, in quanto inserito in una macchina che funziona perfettamente da sola, non ha bisogno di alcun impegno particolare da parte dei vari addetti ai diversi reparti. Il suo è un lavoro burocratico, di routine, chiunque altro potrebbe svolgerlo. Può permettersi di rivolgersi ai suoi traghettati “cortesemente”, senza nessuna animosità personale, e di chiedere tranquillamente denaro e orologi. Non è un furto, il suo, né una violenza. L’ambiente e le circostanze lo permettono. È solo un uomo, un piccolo uomo, con le sue piccole furbizie e necessità. Ciò lo rende insieme più forte e più insignificante del potente, maestoso nocchiero dell’Acheronte, il cui terribile aspetto serve a terrorizzare i suoi passeggeri, che devono capire. Le nuove “anime prave” hanno già capito tutto, non hanno alcun bisogno di essere spaventate. Il loro Caronte è cortese, quasi innocuo, riesce perfino a strappare loro – incredibile a dirsi – un’ombra di ‘riso’. Così funziona nell’inferno, quello vero.
Francesco Lucrezi