Storie di Libia – Manuela Buaron
Manuela Buaron, ebrea di Libia, nata a Tripoli nel 1958. La sua, racconta, era una famiglia non troppo osservante. Sua madre Rachele era una Abravanel e sua nonna una Labi, famiglie molto religiose che vantavano nella loro genealogia anche dei famosi rabbini. Hanno tramandato le tradizioni ebraico tripoline a tutti i loro discendenti e anche lei le ha trasmesse ai suoi figli.
Suo padre era di Bengasi, aveva un negozio che trattava macchine fotografiche, sviluppo film e l’esclusiva con la Kodak. Facevano il kiddush il venerdì sera, andavano talvolta al Tempio, i loro figli frequentavano le scuole italiane delle suore. Il rapporto con la comunità araba era discreto. Lei non ricorda molto di quegli anni. Solo che aveva molto affetto per una signora araba delle pulizie che lavorava a casa loro. I suoi fratelli più grandi le raccontarono degli scontri con i libici, delle provocazioni, delle risse e delle molestie alle donne. Durante il pogrom del 1967 aveva otto anni. Il 5 giugno suo padre la andò a prendere a scuola prima del solito. Rimasero in macchina nascosti per un po’, perché la strada era colma di gente urlante. Ma non era consapevole del pericolo. Trovare a casa gli zii e i cugini fu una sorta di gioco, nonostante fossero chiusi in casa. Solo dopo qualche giorno iniziò a comprendere. Vide infatti sua cugina partire. Fortunatamente, comunque, non soffrirono la fame.
Dei loro carissimi amici arabi, a rischio della vita, gli portavano il cibo ogni giorno. Iniziò ad avere paura quando un giorno bussarono alla porta. Lei stava andando ad aprire e la fermarono prima che arrivasse alla maniglia. Poi sentì i genitori che parlavano di ciò che stava succedendo fuori. Grazie ad un altro caro amico di suo padre, un ambasciatore, lei e sua madre partirono per l’Italia. Furono portate in aeroporto con una macchina dell’ambasciata. Suo padre e i fratelli rimasero invece in Libia, perché uno di loro – non rendendosi conto della situazione – volle per forza sostenere gli esami di maturità.
Andarono a Milano ospiti dei suoi zii. Purtroppo da Tripoli non arrivavano notizie e sua madre angosciata piangeva ogni sera. Finalmente dopo alcuni giorni arrivò anche il resto della famiglia. Fu un periodo molto difficile, non avendo potuto portare via nulla. Vedeva suo padre seduto sulla poltrona, che cercava sul giornale le offerte di lavoro. Aveva una famiglia da mantenere, figli grandi che studiavano. Poi finalmente trovò la sua strada, creando un’attività che rivendeva prodotti farmaceutici. Ai suoi figli ha trasmesso sia i ricordi piacevoli che quelli negativi.
Molti erano ricordi dei suoi genitori. I suoi erano solo quelli idilliaci di una bambina. I giochi al mare, la sabbia che il vento smuoveva creando delle ondine… Talvolta i suoi figli la facevano sorridere, ad esempio quando andavano al mare in qualche spiaggia dicendole che sulla sabbia c’erano le ondine di Tripoli. Avevano fatto talmente propri questi racconti che sembrava ci avessero vissuto.
I racconti di sua madre e dei fratelli non erano affatto rosei, perché avevano vissuto la durezza della realtà in Libia ed erano stati costretti a scappare, lasciando tutto là. La fatica di suo padre per ricominciare. L’esperienza della loro zia ricchissima, che una volta in Italia non aveva neanche da mangiare. Tutto ciò Manuela lo ripropone sempre ai suoi figli. Per incentivarli a non sprecare il denaro, ma a metterlo da parte. Perché, afferma, nella vita non si sa mai.
Il passaggio da Tripoli a Milano fu traumatico per tutti. Tutto era diverso, la vita e il clima. Soffriva molto freddo. Ma andarono avanti e si rifecero tutti una vita. Certo a lei sarebbe piaciuto ritornare in Libia. Ma non per nostalgia, solo per rivedere i luoghi d’infanzia. Ma poi pensò che non avrebbe più trovato le cose che aveva lasciato. Meglio quindi era rimanere con un buon ricordo.
Ma il sapere che ti viene impedito crea un grande trauma, ed è terribile. Tutti hanno bisogno di avere un’identità, una appartenenza. Trovare le proprie radici. Lei personalmente questa appartenenza l’ha compresa meglio nel 2016, lavorando con la Fondazione CDEC. Il suo compito era quello di catalogare foto e documenti storici riguardanti le famiglie ebraiche, anche quelle cacciate dai paesi arabi. Fece principalmente una ricerca sulla sua famiglia. Anche a casa di sua madre trovò valigie di foto. Decise di mandarne alcune ai parenti nel mondo. Provarono tutti un’emozione profonda. La sofferenza per il pogrom, sottolinea, non può essere rimossa. L’ingiustizia subita non si può dimenticare. Essa è stata messa da parte solo temporaneamente, per poter ricominciare perché allora la priorità era sopravvivere.
La famiglia si è dispersa per il mondo ma sono riusciti lo stesso a conservare il senso di unità familiare. Grazie anche alle sorelle Abravanel, che le hanno insegnato l’importanza dell’unione non solo tra i fratelli ma anche tra i cugini. Essi porteranno avanti le tradizioni, quando gli anziani non ci saranno più. Non bisogna mai spezzare il filo che lega tutti. E mettere da parte caratteri orgogliosi e litigiosi. Niente, insiste Manuela, deve essere più forte dei legami familiari. La tradizione religiosa è l’eredità per le generazioni future. La famiglia è casa. Lei si sente a casa in Israele.
Quando tredicenne ci andò per una vacanza l’emozione provata fu incredibile. Ritiene opportuno lottare contro l’ingiusta subita. Non bisogna mai smettere di lottare su tutto, compresa la confisca dei beni. I suoi nel 1967 tornarono di nuovo a Tripoli per cercare di recuperare alcune cose, come già avevano fatto altre famiglie. Sostiene che tutto ciò che testimonia la presenza millenaria degli ebrei in Libia debba essere protetto, che le sinagoghe e i cimiteri vadano preservati. Ma teme che sia molto difficile. Pensa infatti che, se pure cambiasse la situazione politica, il governo non permetterebbe di erigere un monumento in memoria delle vittime dei pogrom del 1945/48/67 e della Shoah. Cambiando governanti sarebbe di sicuro dissacrato, usato per insultare e sporcare la storia ebraica. Così come altri hanno già fatto in passato, vituperando e radendo al suolo i cimiteri.
È suo convincimento che l’esperienza e la cultura tripolina possano insegnare cose molto significative, come l’attaccamento alle tradizioni religiose e la difesa della propria identità. Vivendo in nazioni multireligiose l’ebraismo non deve essere sacrificato per l’integrazione. Mai dimenticare l’importanza di tenere unita la famiglia. Sono princìpi che vorrebbe trasmettere alle future generazioni, ai nipoti e pronipoti. Lottare per conservare tutto ciò è faticoso. Ma, conclude, essenziale. Affinché non si dimentichino.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(16 maggio 2022)