Lo sguardo dell’ingenuo

A quel grande male del nostro tempo che è conosciuto come banalizzazione, ossia la semplificazione della “complessità” (ahi, parola – quest’ultima – ultimamente non sempre bene utilizzata; tuttavia, non per questo di certo da evitare a priori) in una serie di affermazioni vuote e ottuse, si accompagna l’irritante sguardo degli ingenui. Sono tali coloro che non riescono a cogliere la profondità dell’agire umano, ovvero il suo ancoramento ad una pluralità di moventi e, con essi, le interconnessioni alle quali dà corso nel mentre si manifesta e produce i suoi effetti. Banalità e ingenuità sono in fondo due facce della medesima medaglia. Per anni e anni si è discussa (a volte con cognizione di merito, in altri casi del tutto senza) della tesi di Hannah Arendt sulla cosiddetta «banalità del male». Un tema, quest’ultimo, assai più articolato di quanto molti critici, al pari di non pochi entusiasti esegeti, siano disposti a riconoscere. Ciò che definiamo con la locuzione «sguardo degli ingenui» è l’insuperabile incapacità di capire quanto sia paralizzante un ottimismo privo di qualsiasi spessore, tale poiché basato sulla programmatica incomprensione dell’intrico dell’esistenza. Nella nostra società, lo scudo dell’ingenuo è dato dalla visione ideologica della vita, ossia la sua riduzione ad una serie di scarni precetti valutativi, per i quali è l’esistenza stessa a dovere aderire all’idea di cui si è portatori e non, semmai, l’opposto. L’ingenuità difetta in sé dello spirito del tragico, che non è la compiaciuta rifrazione della propria identità in una condizione di perenne smarrimento e annichilimento ma la cognizione che grandezza e rovina, ascesa e declino, quindi esistenza e sua nullificazione, non sono mai categorie antitetiche bensì aspetti diversi dell’esperienza del quotidiano. Uno dei più grandi errori che lo spirito umano possa commettere è invece il consegnare questa consapevolezza a quanti sono i manipolatori politici del disagio, gli impresari della paura, i fomentatori del livore. Che la piegano ai loro disegni. Qualsiasi principio speranza (così il filosofo Ernst Bloch: qualcuno ancora se lo ricorda?) si alimenta del bisogno di potere fare a meno delle illusioni. Le quali, nello sguardo dell’ingenuo, invece sono al pari di miti non scalfibili. La banalità e l’ingenuità sono la pietrificazione di ogni ipotesi di un qualche futuro migliore rispetto ad un presente nel quale si fatica altrimenti a riconoscersi. Per capirci, se non scatta la molla del bisogno di cambiare qualcosa, è assai improbabile che si produca un qualche mutamento che non sia la semplice ricaduta nella propria irrilevanza, quella dettata dal fatto che nello sbattere la testa contro il muro, quella che si rompe è la prima e non il secondo. Ma per smontare un muro, ci vuole ben più di una testa. E anche molte mani. Tra di loro ben coordinate. Quindi solidali e non in eterna competizione tra di loro.

Claudio Vercelli

(22 maggio 2022)