Storie di Libia
Daniela Gemma Abravanel

Daniela Gemma Abravanel, ebrea di Libia, nata a Tripoli. Fu una delle prime a partire per l’Italia, due giorni dopo lo scoppio della Guerra dei sei giorni grazie a suo padre che era un amico del direttore dell’Alitalia. Fu ospite a Milano a casa di cari amici dei suoi genitori. Essi la sostennero nel periodo più brutto, quando non aveva notizie dei suoi. Le poche volte che riusciva a parlare con loro era solo per pochissimo tempo. Le linee telefoniche, infatti, erano sotto il controllo del governo libico.
Un paio di volte al mese, di Shabbat, la tata la portava a casa loro. Facevano il kiddush ogni venerdì sera e grazie a loro potè conoscere la parte spirituale e sacra dell’ebraismo. Iniziò a viaggiare per il mondo. In un Centro Universitario di Studi Buddista un dalai le diede un libro scritto da uno dei più importanti studiosi ebrei, rav Adin Steinsaltz: “La Rosa dai 13 Petali”. Le disse che secondo lui quel libro era lì per lei e che l’aspettava da anni. Per una settimana lo studio. Dopodichè riprese l’aereo e andò in Israele dove conobbe personalmente il rav. Divenne il suo maestro. Studiò con lui e lo seguì fino alla sua morte.
Decise di approfondire seriamente lo studio dell’ebraismo. Tutti i testi sacri, la legge ebraica, la filosofia, la Cabala e l’interpretazione più esoterica delle scritture. L’esperienza del divino in maniera personale attraverso il canto, la danza e l’interpretazione cabalistica: un ramo di studio che le permise di connettersi con la tradizione del suo avo Simon Labi, il quale era stato anche un alchimista. Ciò che imparò studiando in una università della California confermò le sue scelte, rafforzando la sua parte ancora poco conosciuta. In una biblioteca trovò un libro che trattava dei più importanti cabalisti ebrei della storia. Trovò un capitolo tutto dedicato al suo avo. Fu molto importante per lei conoscere la storia della sua famiglia. Tra gli altri maestri spirituali ci furono anche Manitù Leon Askenazi e André Nees. Avevano dei luoghi di studio molto particolari, perché non escludevano il rapporto tra la psicologia, la scienza, l’arte. C’erano professori di musica, di teatro, musicisti, filosofi di altissimo livello.
Se non fosse successa la tragedia del pogrom e della cacciata del ’67, sottolinea Daniela, “non avrei potuto fare tutto quel percorso spirituale”. Né avrebbe creato in futuro un centro per accogliere gli esuli, per gli studi esoterici e per le cure naturali. Tra i tanti temi ha iniziato anche ad interessarsi delle 10 tribù d’Israele disperse. Anche un noto rabbino, racconta, affermò che se non fossero tornate tali tribù Israele non avrebbe potuto aspirare a diventare veramente il “Regno d’Israele”. Si commosse molto quando sentì queste parole. Quell’uomo, nonostante la sua età avanzata, continuava a viaggiare e prendere aerei andando in Birmania, Perù e in molti altri Paesi. Veniva sommerso da migliaia di lettere da tutto il mondo. Erano ebrei che avevano bisogno di un rabbino che li riconoscesse. Daniela gli fece da segretaria per molto tempo, vista la sua conoscenza di numerose lingue. Rimase scioccata dalla quantità di lettere e foto. Erano persone che osservavano la Torah con un attaccamento alla religione che non si vedeva in giro. Erano isolati, per loro partecipare ad uno Shabbat era una gioia immensa.
Per quanto riguarda la necessità di preservare le tradizioni ebraiche libiche, racconta di portare spesso con sé un cesto di vimini, dove ad ogni Pesach vengono raccolte tutte le cose che occorrono per rispettare la ritualità della festa. Nel tempo ha notato purtroppo una sorta di decadenza religiosa nelle nuove generazioni. Ma è convinta che un giorno gli ebrei ritorneranno al cuore della religione, finalmente liberi dall’esteriorità.
Della Libia non ha nostalgia. Erano troppe le ingiustizie che gli ebrei subivano lì. Preferiva non pensare alle cose che succedevano, andare al mare a giocare sugli scogli con i pesci. È l’unica cosa che gli manca di Tripoli: il mare. Se potesse ci tornerebbe subito.
La tradizione tripolina è bellissima, così come la liturgia. Daniela ricorda i bellissimi canti che sentiva in sinagoga della Hara. Crede che sia giusto lottare per l’ingiustizia subita a Tripoli, compresa la confisca dei beni. La parola giustizia, negli insegnamenti ebraici, significa “non rubare a chi ha lavorato”. La sua famiglia, che si era affidata a una persona che purtroppo non aveva potuto portare a termine il suo compito, non è riuscita ad avere nulla. Per quanto riguarda il preservare i luoghi sacri ancora rimasti in piedi, in assenza di ebrei – si chiede – quanto potrebbe servire tutto ciò? Trova più logico il progetto di cimitero virtuale.
Questa, spiega, sarebbe una grossa possibilità viste le molte cose che possono succedere. Nell’atto di costruire monumenti non crede molto. Certo sarebbe bello se ci fosse un artista che riuscisse a trasmettere in essi tutta la sofferenza, i traumi, la paura e la morte ma anche la speranza di redenzione del popolo ebraico. Ma se non cambia la mentalità, sostiene, sarebbe un ulteriore modo di dissacrare.
La cultura ebraica tripolina, aggiunge, potrebbe insegnare alle altre culture a combattere per preservare la propria. Il messaggio che vorrebbe lasciare alle future generazioni è di connettersi al proprio talento rimanendo originali. E di avere il coraggio di andare a cercare veramente chi siamo e il motivo per il quale siamo in questo mondo. Per esempio i grandi cabalisti, un tempo, quando nasceva un bambino andavano a vedere quali erano le sue stelle, quelle che lo avrebbero fatto risplendere. Poteva essere un talento, una missione. Ognuno deve cercare la propria missione senza farsi trascinare dal concetto di massa, ma rimanendo se stessi. È una cosa molto importante e nostro compito, conclude, è quello di completare ciò che non hanno potuto portare a termine i nostri antenati.

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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(23 maggio 2022)