Margherita l’illusa

Gianni Scipione Rossi ha pubblicato per Rubbettino Editore “L’America di Margherita Sarfatti. L’ultima illusione”. L’autore ha svolto un’importante carriera in RAI assieme ad una produzione letteraria che palesa un suo amoroso interesse per ebrei ed ebraismo (La destra e gli ebrei, Rubbettino, 2003; Lo “squalo” e le leggi razziali. Vita spericolata di Camillo Castiglioni, Rubbettino, 2017).
Era prevedibile che un volume sulla Sarfatti rendesse, giustamente, indistinguibile la vita della protagonista dal contesto nel quale si svolse, rendendo l’una e l’altro paradigmatici delle vicende di ebrei ed ebraismo.
Svuotando il racconto dalla singola vicenda, reso affascinante senza cedere alla lusinga di una parola in più del necessario, come si conviene ad una penna maestra, troviamo un itinerario destinato a ripetersi senza posa, a dispetto di chi fosse inconsapevole del ruolo ambiguo dell’esperienza.
La trama: l’ebrea veneziana Margherita Grassini, nata nel 1880 da genitori agiati (padre imprenditore e madre figlia di banchiere) riceve un’istruzione sofisticata. Sposa nel 1899 l’avvocato socialista Cesare Sarfatti, dal quale avrà tre figli. Nel 1902 si trasferiscono a Milano, dove svolgerà un’intensa attività giornalistica. Conosce Mussolini nel 1912, del quale diverrà sia un pigmalione, dirozzandolo ed ispirandolo, sia una (scatenata) amante. Nel 1915 seguirà il futuro Duce nell’interventismo, partecipando nel 1919 alla nascita dei fasci di combattimento.
Roberto Sarfatti, figlio di Margherita, patriota ai limiti del fanatismo come tutti gli ebrei italiani, morirà diciassettenne nella Grande Guerra. Riceverà una medaglia d’oro al valore militare e gli sarà dedicato nel 1935 un importante monumento funebre eseguito in stile razionalista da Giuseppe Terragni, i cui blocchi sono recisi nel bel mezzo da una scala che mi ricorda una piramide maya, dove il ruolo sacrificale prevedeva per la vittima un percorso di mera salita. Tutti si meraviglieranno che non vi fosse una croce, ma forse la madre avrà considerato di aver già dato.
La Sarfatti scriverà una biografia di Mussolini (Dux) che conoscerà un successo travolgente, sia per tiratura che per il numero di traduzioni. Nel 1924 resta vedova, si trasferisce a Roma e nel giro di pochi anni esaurisce, nell’ordine, prima la relazione con Mussolini e in prosieguo la sua stessa collaborazione col regime. Alla fine del 1938, con l’emanazione delle leggi razziali, il regime le consente di lasciare l’Italia portando con sé dei preziosi. Si rifugia prima a Parigi e poi a Montevideo, che lascerà per Buenos Aires. Rientrerà in Italia nel 1947, dove morirà nel 1961.
Al cuore della sua vicenda vi sono l’abbandono del socialismo per il fascismo nel 1915 e dell’ebraismo per il cattolicesimo nel 1928, venendo poi abbandonata sia da Mussolini come sua musa, quando finì di essergli utile, sia dall’Italia con l’emanazione delle leggi razziali. Una lunga teoria pluridirezionale di abbandoni, che chiama in causa il carattere effimero delle seriori adesioni. Smarrisce la gloria del mondo, svanita come le foglie d’autunno. Perde il marito (copiosamente tradito) perde l’amante (inutilmente beneficato) e perde il figlio (sacrificato sull’altare di un’Italia matrigna, del quale tenta di recuperarne i frammenti col predetto monumento).
Il riferimento del titolo del volume all’America riguarda un libro sulla sua lunga trasferta in America nel 1934 (L’America. Ricerca della felicità, Mondadori,1937) dove fu addirittura ricevuta alla Casa Bianca dal Presidente Franklin Delano Roosevelt e dalla sua consorte Eleanor. È stato un suo tentativo di avvicinare il paese alla democrazia americana, allontanandolo dall’abbraccio mortale col nazismo, confidando nell’intelligenza di chi aveva troppo spesso privilegiato l’astuzia. Sennonché, sei anni dopo, gli americani saranno così vicini all’Italia da sbarcarvi in forze, provocando la caduta del regime. Il Duce non aveva visto lontano, per contro, Margherita, la sua mentore, aveva scrutato a dovere l’orizzonte, ma il suo amato Benito era troppo supponente e superficiale per tanta finezza. La Sarfatti ne prenderà atto in un suo libro autocritico, intriso del pathos di chi scrive a tempo abbondantemente scaduto (My fault: Mussolini as I knew him, Enigma Books, N.Y., 2014, p. 217, che raccoglie gli articoli pubblicati su un giornale di Buenos Aires nel 1945). Il libro richiama la colpa e (soggiungerei) il suo doppio; colpevole per aver creduto, colpevole per aver scritto quando la sua mano era quella di un fantasma che traccia segni nell’aria.
Come accennato, i diversi abbandoni di cui la Sarfatti fu parte attiva, furono poi seguiti dagli altrettanti abbandoni di cui fu parte passiva e se nel titolo del libro campeggia il riferimento all’illusione, non è certo per caso. Il nostro dilemma, semmai, è quello di decidere quanto possa essere gradito rinvenirvi uno schema che in qualche modo risalga al rapporto dialettico fra la persecuzione del popolo ebraico ed i suoi travagliati rapporti identitari. Poiché i problemi esistenziali si staccano in modo reciso dalle vicende amorose e dalle ambizioni della protagonista, il racconto delle predette vicissitudini non ha una soluzione di continuità con le riflessioni sul destino degli ebrei o, quanto meno, con un suo ripetuto versante. Se si fosse trattato, per dire, di un’altra delle donne del Duce, come nel caso di Ida Dalser, il tutto si sarebbe arrestato alla sola vicenda sentimentale ma, nel caso della Sarfatti, l’educazione sentimentale, la politica e, soprattutto, l’ebraismo, finirono non solo per sostituire il miele con veleno, il che è tutt’altro che infrequente, ma soprattutto, portano a riflettere sul destino che di lì a breve colpirà gli ebrei italiani, che erano assurti in pochissimi anni dalla condizione di reietti a quella di protagonisti importantissimi, ma non ineliminabili (anche fisicamente, la sorella di Margherita finirà col marito ad Auschwitz) dalla vita nazionale.
Se non vi fosse in tanta parte del popolo ebraico una coazione a ripetere, si sarebbe detto che si trattava di una sorpresa. Con poche ma grandi pennellate, Rossi ci conduce per mano nei meandri di una vita, ma non dovrebbe sfuggirci che il suo racconto è inscindibile da un procelloso (e altrettanto accattivante) sottotesto plurale. Spetta a noi esplorarlo, sembrerebbe dire l’autore, dopo averci porto le chiavi.

Emanuele Calò, giurista

(24 maggio 2022)