Dorothy Day, passione civile
e impegno contro l’odio

Paladina di molte battaglie per la giustizia sociale, quella dell’attivista cattolica Dorothy Day (1897-1980) è una figura chiave del Novecento americano. Un vero e proprio monumento di umanità accostato a personaggi come Martin Luther King e Abraham Lincoln. Una vita al fianco degli “ultimi” e che contempla, tra le tante declinazioni della sua poliedrica figura, anche l’impegno come giornalista. Penna e passione civile al servizio di ideali vissuti senza mai risparmiarsi e con piena consapevolezza. Tra gli altri un fermo rifiuto di quell’antisemitismo purtroppo diffuso a molti livelli della società statunitense, incluso quello stesso mondo cattolico di cui deciderà di far parte all’età di 30 anni. Una donna “di grande gioia e passione, di umorismo, curiosità e amore per la bellezza”; ma che, in determinate circostanze, poteva rivelarsi anche piuttosto “impaziente, imprevedibile, tagliente”. Sfumature di carattere distinte ma che spesso sono andate ad intrecciarsi e amalgamarsi come ben racconta la giornalista Giulia Galeotti, responsabile della redazione culturale dell’Osservatore Romano, nella sua biografia di recente pubblicazione “Siamo una rivoluzione. Vita di Dorothy Day” (ed. Jaca Book).
Attraverso la storia della donna, di cui si ricorda tra gli atti più incisivi la fondazione del movimento Catholic Worker insieme a Peter Maurin, è l’intera storia del ventesimo secolo ad essere riletta. Anche e soprattutto anche nei suoi problemi ancora irrisolti.
Una vicenda fatta di ideali, di scelte e di incontri. Ma anche di traumi destinati a non rimarginarsi. Come la voragine che andrà a formarsi già in gioventù con il padre John. Un uomo dal carattere duro e dagli orizzonti ristretti, negativamente impressionato da quella figlia neanche ventenne che, affamata invece di esperienze e pronta a mettersi in gioco in prima persona, “fuma e parla troppo di socialismo, diritti delle donne, amici ebrei e del suo futuro come scrittrice”. Per fortuna a spalleggiarla c’è la madre Grace, di tutt’altra pasta, che non solo ne è la prima confidente ma la incoraggia anche a perseguire i propri sogni e obiettivi.
A New York il suo primo impiego sarà nella redazione del giornale socialista The Call. Una testata piccola ma grintosa nel portare avanti le proprie speranze e istanze. E soprattutto dotata di un inserto domenicale con una sezione dedicata alle donne diretta da una giornalista ebrea, Anita Block, il cui orgoglio era quello di non aver mai pubblicato né una ricetta né un consiglio di moda. La scelta è di volare un po’ più in alto rispetto agli standard, disquisendo ad esempio di socialismo così come di emancipazione femminile. Temi decisamente più interessanti alle orecchie di Dorothy.
A quell’epoca di prima formazione risalgono anche altri incontri destinati a rimanere impressi nella memoria e a condizionarne il percorso. Come l’East Side “degli ebrei russi dalla religiosità palpabile che vi abitano”, scrive Galeotti. Uno dei primi quartieri di New York di cui farà la scoperta nelle sue esplorazioni urbane. Camminando per quelle strade brulicanti di umanità, Day assiste infatti a scene di negozianti e operai intenti a “leggere i salmi e pregare nei momenti di pausa”. Intuendo, in questo loro atteggiamento, “una forma autentica di conoscenza, nonostante regnino povertà e proteste”. È lì, nel segno anche di queste visioni, che matura un’immagine di forza nella tragedia: quella di ebrei e di italiani che insieme fanno sentire la loro voce contro un sistema che li relega ai margini “in manifestazioni solitamente causate da casi specifici di miseria umana, come una morte in un incendio, la fame, lo sfratto”.
Questioni di cui non smetterà mai di occuparsi fino all’ultimo respiro, opponendosi con decisione di fronte a ogni forma di sopruso e disuguaglianza. Non è quindi un caso se il papa, nel suo intervento al Congresso Usa del settembre del 2015, il primo di un pontefice in quella sede così solenne, l’abbia inclusa tra i “grandi americani”.

Adam Smulevich

(25 maggio 2022)