Giosuè e Giuda Maccabeo
Nel parlare del tema “Dante e gli ebrei” bisogna tenere presente che l’autore della Commedia fu insieme due cose: un teologo e un poeta. La sua visione teologica è certamente di grande interesse, soprattutto per la costruzione del Purgatorio. Non si può tuttavia dire che egli abbia apportato significativi avanzamenti della teologia medievale, e, se le sue visioni hanno esercitato un’influenza ciò si deve pressoché esclusivamente alla sua straordinaria fama come poeta, senza la quale, probabilmente, oggi nessuno parlerebbe di lui.
Ma, se Dante è soprattutto un poeta, non è giusto focalizzare l’attenzione del suo rapporto con l’ebraismo solo sull’aspetto teologico. Questo, comprensibilmente, ha prevalso quando abbiamo analizzato i versi da lui dedicati a Giuda, Caifa e Anna, ma è bene che altre figure ebraiche tratteggiate nella Commedia siano prese in considerazione prevalentemente sul piano artistico, senza fissarsi sulla questione se esse siano collocate nella storia ebraica o in quella cristiana. Dante, come creatore, non si pose sempre questo problema, non si può chiudere il suo genio creativo nella gabbia della teologia medievale. Se si prescinde da questo aspetto, si sarà più liberi di interpretare la creazione dantesca, che, nei suoi rapidi ma intensi riferimenti ad alcune figure chiave dell’antico Israele, ci lascia una galleria di ritratti di straordinaria efficacia e intensità. Ciò, per esempio, si vede nel caso di Giosuè e Giuda Maccabeo.
Nel diciottesimo Canto del Paradiso – che si svolge nei cieli di Marte e poi di Giove – Dante torna a esprimere, in forma di altissima poesia, la sua visione della giustizia, considerata, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, il principale valore terreno e divino. Il mondo ultraterreno è stato creato, secondo la visione dantesca, da Dio, nella sua triplice natura di potenza, sapienza e amore (“Fecemi la divina potestate/, la somma sapienza e il primo amore”: Inf. III. 5-6). Ma ad avere mosso il Creatore per la realizzazione del suo progetto è stata l’esigenza di giustizia (“Giustizia mosse il mio alto fattore”: Inf. III. 4), senza la quale non avrebbe avvertito la necessità di creare Inferno, Purgatorio e Paradiso, che sono preposti, appunto, a realizzare la giustizia.
Essa deve trovare compimento tanto in cielo quanto in terra. Se, nell’aldilà, tale funzione è affidata al Signore, sulla terra è invece nelle mani degli uomini, che sono tenuti a creare istituzioni civili atte a raggiungere questo obiettivo. Ma c’è un solo regime politico in grado di assolvere a questo compito, ed è la monarchia, che deve essere una sola, come uno solo è Dio. Se sulla terra ci sono due regni, essi realizzeranno la giustizia in due modi diversi, e ciò non è ammissibile, perché la giustizia è una sola.
Questo concetto viene espresso in forma sublime attraverso la visione delle anime che, nel cielo di Giove, in forma di stelle luminose, cantano un inno di lode al Signore, muovendosi come uccelli alle note del loro stesso canto, e fermandosi a ogni nota, disegnando, con la loro posizione, una dopo l’altra, alcune lettere dell’alfabeto. Le varie lettere, messe insieme, compongono – come già abbiamo avuto modo di ricordare – il primo verso del libro della Sapienza: “Diligite iustitiam, qui gubernatis terram” (Sap. 1 = Par. XVIII. 91, 93). Dopo avere composto l’ultima consonante della frase, la M, le anime continuano a muoversi, trasformando le due gambe laterali della lettera in due ali, e dando poi corpo alla visione di un’aquila. È l’aquila di Roma.
Ma, affinché il piano divino si possa realizzare, è necessario combattere per l’affermazione della fede, che è elemento imprescindibile della monarchia e della giustizia. Per questo, nel precedente cielo di Marte, il trisavolo Cacciaguida svela a Dante i nomi di alcuni “combattenti della fede” che ricevono il premio della beatitudine celeste per il loro operato. Ogni volta che viene nominato uno spirito, la luce di questo brilla come fa una folgore dentro una nuvola (XVIII. 36). Ed ecco che Dante vede dalle stelle delle anime beate saettare dei fulmini, ogni volta che sono menzionati. Sei di queste anime appartengono alla storia della cristianità, e sono Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d’Orange, il suo servitore Rinoardo, Goffredo di Buglione e Roberto Guiscardo, figlio di Tancredi d’Altavilla. Ma i primi due nomi fanno parte della precedente storia ebraica, e sono quelli di Giosuè e di Giuda Maccabeo (XVIII. 38, 40).
In un articolo arguto e brillante, pubblicato sul mensile cartaceo di Pagine Ebraiche del dicembre 2021, Anna Segre confessa di trovare ‘bizzarro’ l’accostamento di Giuda Maccabeo e Orlando: “Chi sa cosa avrebbero da dirsi”. Una battuta divertente, anche se è da presumere che proprio tra persone appartenenti a mondi diversi dovrebbe esserci desiderio di comunicazione e curiosità di conoscenza. Tutte le anime, comunque, nelle tre Cantiche, sono mischiate insieme, senza alcuna considerazione per le loro origini e i loro ambienti, quello che conta e che le accomuna è unicamente la loro posizione di fronte al giudizio divino.
Ciò che ci interessa, ai fini della nostra ricognizione, sulla posizione di Dante nei confronti degli ebrei, è che, tra i combattenti per la fede, al primo posto appaiono due nobili figure della storia di Israele, che aprono la strada ai loro successori della cristianità. Certo, la precedenza ha un valore storico e cronologico, non valutativo, non si può certo dire che Dante consideri i due eroi ebrei più santi di quelli cristiani. Eppure, l’ammirazione a loro riservata è evidente, così come di alta suggestione è l’immagine delle stelle di Giosuè e Giuda che, sentendosi nominati, sprigionano dei fulmini. Non si può ritenere, soprattutto, che la storia di Israele, per Dante, sia soltanto praeparatio evangelica. Il messaggio della Commedia, sul punto, è molto più profondo e complesso, e l’evidente reverenza del poeta per quella storia e quel popolo non può essere considerata solo un corollario della sua salda fede cristiana. Certamente, almeno, non sul piano poetico.
E lo stesso può dirsi per la posizione di assoluto rilievo data dal poeta al primo verso della Sapienza, che sintetizza mirabilmente il supremo valore della giustizia. Dante avrebbe potuto scegliere, per rappresentare tale concetto, qualche passo del cd. Nuovo Testamento (ce ne sarebbero diversi adatti allo scopo), ma non l’ha fatto. È la sapienza ebraica quella che gli è apparsa più appropriata per rendere l’idea del suo anelito di giustizia.
Tra i combattenti della fede dell’antico Israele dovrebbero figurare anche altre due figure, più note e importanti di Giosuè e Giuda, ossia Mosè e Davide. Ma essi, come vedremo, sono collocati altrove, perché i loro meriti sono ancora più alti.
Francesco Lucrezi
(25 maggio 2022)