Il direttore che rimase
senza orchestra
Quello di Dachau non fu soltanto il primo lager inaugurato dal Reich il 22 marzo 1933 come modello di “rieducazione sociale” ma anche il sito che, nella preistoria dei media, fece largo uso della prima app musicale: ossia altoparlanti che trasmettevano in filodiffusione musiche della grande tradizione tedesca, inni studenteschi e canti popolari prevalentemente risalenti alla Prima Guerra Mondiale, non ultimo i discorsi del Führer; dalla guardia al deportato, dagli ufficiali di comando al Kapo, nessuno era immune dall’ingombrante macchina imbonitrice del nazionalsocialismo, ideologia a quel tempo ancora in pannolini ma già capace di plasmare menti e cuori di una umanità dolente.
Il 3 novembre 1943 a Lublin-Majdanek marce militari e valzer di Johann Strauss, ininterrottamente trasmessi ad alto volume dagli altoparlanti, coprirono sia gli ordini urlati dagli ufficiali che le grida di 18.000 ebrei uccisi in un solo giorno; l’effetto fu devastante e, dal carnefice alla vittima, la musica sparata a volumi insopportabili per l’intera superficie del lager obnubilò le menti di chiunque.
Élise Petit, musicologa e docente di Storia della Musica presso l’Università di Grenoble, ha meticolosamente approfondito l’uso perverso dell’attività musicale nei Lager aperti dal Reich dal 1933 in poi; premesso che la colpa non è della musica ma del sistema assemblato dalla Germania nazionalsocialista per l’internamento e l’eliminazione fisica, vien da chiedersi quanta forza d’animo e capacità di resistenza intellettuale i deportati abbiano messo in gioco per creare musica che rispondesse alle grandi visioni dell’uomo piuttosto che alle sue depravazioni.
Non c’era limite ad assurdità e tragedie; dall’orchestra di Janowska con i deportati musicisti sparati alla testa uno per uno mentre suonavano fino a quando rimase solo il direttore sino ai prigionieri comunisti invitati a intonare l’Internazionale mentre scavavano la propria fossa e agli ebrei che cantavano salmi con il comandante vestito stile Mosè-Charlton Heston a dirigere con un bastone.
E poi c’erano orchestre, cori e opere teatrali con accompagnamento musicale a fare da clessidra alla quotidianità di deportati, guardie e Kapo; canti tradizionali, religiosi, persino spettacoli per marionette nonché generi di performance artistica impossibili da controllare capillarmente.
Si suonava e cantava per la vita e per la morte; dall’uscita ed entrata per il lavoro nei Kommando satellitari a impiccagioni, esecuzioni capitali, punizioni esemplari – preferibilmente durante gli estenuanti appelli – sino alla musica durante feste serali e notturne ad alto tasso alcolico per ufficiali e Prominenten (detenuti privilegiati) o musica da consumarsi nei postriboli dei Lager.
La dose rincarò con l’ingresso nel repertorio di canti di battaglia e inni dei Lager (Dachau, Buchenwald, Sachsenhausen ne avevano diversi); canti squadrati con cadenza ritmica inflessibile come per i prigionieri rematori delle navi, musicisti con divise appropriate per ricorrenze e visite di ufficiali provenienti da Berlino (ad Auschwitz I Stammlager la divisa era di ottima stoffa color giallo).
Musica ridondante, tronfia, farlocca ma suonata divinamente da bande di ottoni e orchestre di deportati; il Reich era convinto di esser riuscito a traslare il modello-caserma ai Lager nonché a piegare la resistenza psicologica dei detenuti costringendoli a partecipare alla prosopopea celebrativa dell’efficienza prussiana del sistema concentrazionario.
Il Reich si sbagliava; perché, come scrive Italo Svevo (nell’immagine), “la vita non è né brutta né bella ma è originale” e il musicista mescolò scaltramente le carte da poker della vita, rovesciò ideologicamente il lager risucchiando nei propri ingranaggi quei mostri in forma di uomini e idee che, a forza di desiderare la morte altrui, finirono per creare le premesse della morte propria.
Il corpus musicale prodotto in deportazione è un tesoro che musicisti tanto geniali quanto sfortunati hanno lasciato in eredità; tuttavia assomiglia a un montepremi vinto senza neanche aver giocato il biglietto vincente, tutto sembra scontato dato che pochissime persone al mondo hanno messo l’intera propria esistenza in gioco per mettere al sicuro questo Testamento dell’intelletto.
Si desidera qualcosa quando è necessaria; la generazione corrente non avverte minimamente la necessità di riappropriarsi di tale immenso patrimonio, di conseguenza non lo cerca e non lo aiuta.
Nessuno è immune da questa grave, imperdonabile manchevolezza; ancora una volta, il direttore è rimasto senza orchestra come a Janowska.
Latitano istituzioni ebraiche e non, fondazioni, governi e ministeri; ognuno convinto che altri faranno qualcosa, nessuno fa nulla proprio quando lo sforzo sta diventando insostenibile.
Siamo eredi di una fortuna insperata, non dissipiamola; ultima chiamata per l’imbarco.
Francesco Lotoro
(25 maggio 2022)