Le regole della Meghillà

Il trattato di Meghillà si occupa principalmente delle regole della lettura pubblica e della scrittura del Libro biblico di Ester, la più conosciuta fra le meghillòt o rotoli del Tanàkh, noto come la “Meghillà” per antonomasia. Se esistono regole di lettura, signifca che c’è uno scritto da cui leggere. Può sembrare ovvio, ma non lo era affatto per la Meghillà. Troviamo infatti un brano molto interessante nel quale “Ester mandò a dire ai Saggi: Scrivete la mia storia per tutte le generazioni, e che il libro sia incluso negli Agiografi” (p. 7a). L’accettazione da parte dei Maestri, prosegue il brano, non avvenne senza ostacoli, tanto che la disputa riguardo l’inclusione della Meghillà di Ester nel canone biblico proseguì fino all’epoca dei Maestri della Mishnà. Nel nostro brano troviamo infatti diverse opinioni fino all’estendere la discussione anche ad altre Meghillòt. Ciò può spiegare come mai il trattato si apra proprio con le regole relative alla lettura pubblica della Meghillà di Ester, sancendo evidentemente la sua inclusione nel canone biblico. Parimenti, può spiegarsi così il motivo per cui la lettura della Meghillà riceva tanto spazio laddove le altre regole di Purìm – banchetto, scambio di cibi e doni ai poveri – ne hanno assai meno (praticamente nessuno se prendiamo in considerazione la Mishnà senza la Ghemarà). Una volta stabilito che la Meghillà fa parte del canone biblico, occorreva rimarcare che il suo status, come quello di tutti gli altri testi del Tanàkh che non fanno appunto parte della Torà, è tuttavia differente da quello dei libri della Torà. È forse in quest’ottica che possono essere letti gli insegnamenti relativi alla cucitura dei diversi fogli di pergamena che compongono il rotolo, rispettivamente, della Torà e della Meghillà, e perfino alcune regole come quella sulla liceità di leggere la Meghillà da seduti o altre norme ancora. Argomento affine a quello dell’inclusione della Meghillà nel canone biblico, e quindi all’obbligo della sua lettura, è il problema della traduzione dei testi biblici, sia per quanto riguarda la traduzione in aramaico che veniva fatta oralmente a beneficio dei partecipanti in occasione delle letture pubbliche, sia relativamente alla liceità della traduzione dei testi biblici in altre lingue.
Relativamente alla prima questione, troviamo nel nostro trattato un elenco di passi che in pubblico non vanno tradotti, e alcuni neanche letti; sul secondo tema, invece, c’è una interessante tradizione relativa all’origine della traduzione della Torà cosiddetta “dei Settanta”: i dotti incaricati dell’opera, “nel cuore di ciascuno dei quali il Signore, benedetto Egli sia, mise il Suo consiglio”, cambiarono volutamente la traduzione di alcuni passi rispetto al testo originale per motivi di opportunità. Dunque, il problema di tradurre è tema antico, così come lo è lo status particolare riconosciuto da alcuni Maestri al greco, ovvero alla lingua della cultura mondiale. Il trattato è uno dei più brevi e relativamente facili del Talmud. Il primo capitolo, che per estensione rappresenta più della metà dell’intero trattato, si apre stabilendo i giorni nei quali la Meghillà debba essere letta. Qui abbiamo una peculiarità: Purìm è l’unica ricorrenza del calendario ebraico la cui celebrazione è prescritta in tempi differenti a seconda delle località. La tradizione distingue tra le città cinte di mura, le altre città, e i villaggi, con un interessante intreccio di disposizioni pratiche che tengono in considerazione le circostanze e le diverse necessità, da una parte, e una posizione ideologica tesa a sottolineare l’importanza della Terra d’Israele dall’altra. In questo senso, la differenza tra la data in cui la Meghillà si legge nelle città cinte di mura dai tempi di Giosuè – e per antonomasia a Gerusalemme – e quella in cui la si legge nelle altre città può richiamare l’istituzione del secondo giorno festivo, yom tov shenì, da osservarsi nella Diaspora. Oltre a riportare le regole relative alla lettura della Meghillà, il primo capitolo collega a queste norme tutta una serie di altre disposizioni che hanno in comune solo la struttura formale con la quale vengono insegnate: “Non c’è differenza tra… e…, se non…”. Si parte da “Non c’è nessuna differenza tra il primo adàr e il secondo adàr, se non per la lettura della Meghillà e i doni ai poveri”, con ovvio riferimento a Purìm, e si prosegue con argomenti relativi ad ambiti affatto diversi.
Il capitolo si conclude con un blocco continuo di interpretazioni midrashiche che seguono l’ordine dell’intera Meghillà di Ester dall’inizio alla fine. Una simile raccolta sistematica e ordinata di midrashìm è un unicum all’interno del Talmud Babilonese. Il secondo capitolo tratta ancora di regole relative alla lettura della Meghillà e in questo contesto troviamo una discussione affascinante a proposito delle diverse lingue e del loro status: se nel primo capitolo si è inteso dare particolare risalto alla Terra d’Israele, nel secondo viene dato un posto di rilievo alla lingua ebraica (il tema è affrontato anche nell’ottava mishnà del primo capitolo). Come detto a proposito del primo capitolo, anche nel secondo vengono esposte alcune regole non legate a Purìm. In questo caso il comune denominatore è il fatto che si tratta di precetti che possono essere adempiuti in qualsiasi momento del giorno. Con una procedura simile, del resto molto comune nel Talmud, il terzo capitolo estende la trattazione delle benedizioni relative alla lettura della Meghillà a quelle che si devono recitare per la lettura di altri brani del Tanàkh. Anzi, proprio perché è questo l’unico trattato che si occupa diffusamente della lettura pubblica di un libro biblico, il testo si presta a essere il luogo dove inserire la disamina delle regole relative alla lettura pubblica dei vari libri biblici. Vi troviamo una discussione relativa ai brani che è lecito leggere o tradurre in pubblico – l’uso corrente era quello di tradurre in aramaico i brani delle letture bibliche affinché tutti li comprendessero – e quelli che invece non vanno letti o almeno non tradotti. En passant vi sono alcune norme relative all’officiante, o come meglio dovremmo dire “all’inviato del pubblico”, e alle condizioni che possano pregiudicarne l’idoneità.
Il quarto capitolo, prima di tornare a trattare delle letture bibliche relative alle varie ricorrenze, esamina in dettaglio norme relative alle sinagoghe e in particolare il problema della liceità del venderle o del vendere altri oggetti sacri. Il principio fondamentale che viene sancito è quello secondo il quale “si cresce in qedushà (santità) ma non si diminuisce”, ovvero: un oggetto sacro può essere ceduto solo per acquistarne uno dotato di maggiore sacralità, e un oggetto utilizzato per scopi religiosi può essere adibito a un uso differente da quello iniziale solo se ciò costituisce un aumento di qedushà. Nel pensiero ebraico questo principio trova estensione in molti ambiti e rappresenta una vera e propria aspirazione a elevare costantemente in qedushà le persone e ciò che le circonda.
Occorre infjne notare che in questo trattato i capitoli terzo e quarto possono essere invertiti fra loro. Nell’edizione tradizionale del Talmud Babilonese, che seguiamo in quest’opera, essi appaiono in ordine inverso a quello in cui detti capitoli appaiono nelle comuni edizioni della Mishnà e del Talmud Yerushalmì.

Rav Michael Ascoli

(26 maggio 2022)