Silvana Weiller, un secolo di vita
nel segno della cultura e dell’arte

Un anniversario speciale per Silvana Weiller, figura di spicco del panorama artistico e culturale della Padova degli anni Cinquanta e Sessanta, che proprio quest’oggi festeggia il secolo di vita. Nata a Venezia il 29 maggio del 1922, si trasferì molto presto a Milano dove completò la sua istruzione presso il liceo classico Parini fino all’autunno del 1938 e più tardi, dopo la promulgazione delle leggi razziste, alla scuola ebraica di via Eupili. Dopo l’otto settembre la famiglia fu costretta a rifugiarsi in Svizzera, prima nel campo di raccolta della Ramée poi a Losanna dove, presso l’Ecole Cantonal d’Art, si diplomò al Corso Libero di Nudo. Alla fine della guerra trovò in Padova l’ambiente più consono per affinare le sue doti artistiche e di intellettuale. Lì subito seppe conquistarsi il suo posto nella scena culturale cittadina con la determinazione della persona colta che, scevra da ogni sorta di ostentazione, sa farsi apprezzare per sensibilità e intelligenza. Ricordando i primi anni della sua attività, amava dire: “Ero impegnata a fare la moglie e la madre. E poi dipingevo”. Ma questo suo atteggiamento riservato e schivo non deve in alcun modo trarre in inganno. Nella Padova di quel periodo, infatti, le donne che si cimentavano in campo artistico erano rappresentate da un’entità relativamente ristretta e Silvana Weiller, con una partecipazione discreta quanto costante, è forse stata l’unica a incarnare una figura di intellettuale in tutta la sua completezza.
Artista ed intellettuale: contestualmente portò avanti per lunghi anni il lavoro di critico per riviste di settore e per le gallerie della città. Scrivere e dipingere rappresentarono per lei una necessità, una vocazione naturale: due facce di un’unica creatività, spiega chi la conosce bene. Si muoveva negli ambienti culturali patavini con eleganza garbata, incuriosita dalle tendenze più d’avanguardia, attenta ad ogni evoluzione del campo artistico. Così facendo alimentava, con informazioni, sollecitazioni ed eventi esterni, una ricca interiorità destinata ad arricchire un personale percorso di crescita artistica.
La famiglia d’origine, colta e di grandi tradizioni, ha rappresentato senz’altro la molla principale per i suoi interessi culturali e per il suo sviluppo artistico.
Trisnonno, per parte materna, era Giuseppe Coen: un artista nato a Ferrara nel 1795 e morto a Venezia nel 1856. Egli era un apprezzato vedutista, formatosi sugli esempi del settecento veneziano, del quale due opere sono tuttora conservate a Ferrara. In occasione di alcune esposizioni, come quelle del 1840 e del 1841 a Ferrara, i suoi soggetti più apprezzati, le vedute di Venezia e del Castello di Ferrara, riscossero l’approvazione di critici e pubblico. Notevole fu anche la sua attività di illustratore e fotografo. Al nonno, Giorgio Silvio Coen, nipote del pittore, esperto di malacologia, scienza alla quale dedicò anni di studi e di ricerche, va riconosciuto il merito di aver contribuito nel 1923 alla fondazione del Museo civico di storia naturale di Venezia (al Fondago dei Turchi). Apprezzato anche per la sua attività ingegneristica, assieme a Camillo Puglisi Allegra, realizzò, negli anni Venti del secolo scorso, la Camera di Commercio in calle larga XXII Marzo primo edificio in cemento armato costruito in area marciana.
Seguendo le orme del nonno Giuseppe si dedicò anche lui attivamente e con notevole talento alla fotografia.
La madre di Silvana, Maria, studiò pianoforte con Giorgio Levi e si dedicò principalmente allo studio delle lingue (parlava correntemente inglese, francese e tedesco) ma in famiglia vengono conservati anche numerosi suoi disegni a tempera che, sebbene inseriti in una produzione dilettantesca, rivelano un notevole interesse per il tratto e la costruzione dell’impianto figurativo.
Personaggio di riferimento fu la pittrice Alis Levi, moglie di Giorgio Levi, con la quale Silvana ebbe numerosi contatti sin dalla prima infanzia. “Fu l’unica che mi diede delle indicazioni sul piano artistico. Grazie a lei imparai a guardare, analizzare e riprodurre. Mi insegnò ad prendere in mano gli oggetti e a “vederli” nel loro contenuto formale. Un insegnamento che mi ha aiutata e che ho tenuto sempre presente”.
Negli anni milanesi, ancora una ragazzina, Silvana amava andare ai giardini pubblici o allo zoo armata di carboncini e blocchi notes, intenta a ritrarre la realtà che la circondava. Già i primi schizzi rivelano un’indiscussa sicurezza nel tratto: l’uso della linea di contorno a definire e costruire sinteticamente è al tempo stesso carica di una espressività essenziale e dinamica. Con un movimento rapido e fremente riesce a trasmettere tutto lo stupore di chi sa guardare, con interesse e divertimento, a volte con sottile ironia, ciò che lo circonda. I suoi insegnanti furono la famiglia, la strada, la città.
“Abitavo…in tutta la città abitavo – scriverà l’autrice più tardi in un racconto inedito – Come si può fissare un punto isolato, quando tutto appartiene, non al cuore o alla mente, ma al corpo stesso e si respira e si pulsa nel sangue torbido di una città?”.
Il suo percorso evolutivo, ricco di svariati interessi, rappresenta il vertice di una cultura composita caratterizzata da internazionalismo e desiderio di aggiornamento. Alla base ci fu una sete di sapere e guardare, intorno ed oltre. E di dire: traducendo e rielaborando in un vocabolario dalla matrice di sorprendente originalità. La curiosità sarà lo sprone che la sosterrà nella produzione artistica e nello studio, sia di tematiche del passato che quelle riguardanti i movimenti artistici più d’avanguardia. E che darà corpo a tutte le altre innumerevoli attività che la vedranno coinvolta.
Stabilitasi a Padova, cominciò a dedicarsi con entusiasmo e con continuità alla pittura promuovendo un processo di maturazione che la vedrà, dalle prime prove di matrice figurativa, appropriarsi di un lessico via via sempre più smaterializzato: il segno lascia il passo ad una ricerca incentrata sul colore e sulla materia ma la luce, cercata e tradotta in mille differenti maniere, rappresenterà sempre il cuore della sua sperimentazione. Luce per svelare e trasmettere energia e potenza. E se la produzione della prima metà del Novecento si carica di sfumature barocche veneziane e di impasti di tonalità morbide, dove l’influenza chagalliana in lei diventa più affettuosa e umana, è pur vero che sotto la magia del colore si avverte un’inquietudine, una nostalgia che trasforma le sue opere in fotogrammi dell’inconscio, in rispecchiamenti dell’anima.
Attraverso un lavoro di affinamento, tecnico e psicologico, l’essenza del suo messaggio risulterà più tardi racchiuso in forme geometrizzanti tali da esaltare la liricità del contenuto materico e l’eleganza di cristalline iridescenze.
Procedendo negli studi avviati fin dagli anni settanta, basati sul bianco e sul nero e sulla scelta del quadrato, quale campo d’azione, Silvana Weiller attraverso l’uso monocromatico, ora del bianco ora del nero, si libera dalle pastoie del colore avvertito come limitazione creativa e approderà ad un lessico di luminosità nella quale le valenze psicologiche saranno esaltate dalla sofisticata linearità del segno. È una ricerca di sintesi raggiunta attraverso una semplificazione estenuata, scevra dal vincolo formale e cromatico e nello stesso tempo ben conscia del valore di entrambi.
La gestualità, dinamica e prepotente dei primi lavori, si tramuterà con la maturità in energia distribuita sulla tela attraverso la materia. Materia ora plasmata, ora aggrumata, ora tolta, ora aggiunta ma sempre domata e forgiata tramite un’ operazione dalle connotazioni scultoree incentrata su una luminosità intrinseca tutta da animare e svelare.
Dopo la matericità degli anni ottanta un giocare nuovo con il colore la vide cimentarsi in percorsi di trasparenze attraverso timbri squillanti di rosso, e nero, o ancora più avanti con gamme differenti del viola e del carminio. In anni più recenti, il ritorno alla calma del bianco totale evidenzierà una linearità espressiva dove la materia, seppur ancora presente, viene dissolta in filigrane di spessore onirico.
Risale agli anni sessanta la collaborazione con riviste specializzate del settore, tra cui “Arte Triveneta” ed “Eco d’Arte Moderna” e con le principali gallerie d’arte contemporanea della città. Parallelamente, per quasi un ventennio, si occupò di “Cronache d’Arte” sul Gazzettino di Padova, recensendo mostre ed artisti presenti in città. Numerosi furono gli interventi all’interno della rivista “Il Sestante Letterario” mentre nel decennio successivo una ricca attività poetica la porterà ad instaurare un intenso rapporto collaborativo con il poeta ed editore Angelo Bellettato, fondatore delle Edizioni dei Dioscuri.
Le sue poesie si fissano sulla pagina srotolando pensieri e sentimenti che sono un misto di sensazioni, di ricordi, di riflessioni. E questo fiume di immagini porta dentro di sé la precisa coscienza del peso della parola, parola alla quale ella si affida, fiduciosa, per essere portata altrove, in un viaggio che si tramuti in sogno senza dolore né inganno. Affiorano allora parole dolenti e scabre, frementi e concise, in una perenne ricerca di serenità, di pace. E la poesia, con pennellate brevi e concitate, diviene candida, melodica brezza, si trasforma in quadro dell’anima, discreto e appena mormorato. Il dettato lineare, la prosa breve e sincopata (talora in caduta oppure sospesa, raramente martellante), i versi (segni pittorici di un differente ma analogo dettato) sembrano ripiegarsi muti e malinconici nella ricerca spasmodica di uno spazio interiore dove sia possibile ritrovare una luce di malinconia soffusa ed amica.
La variegata misura delle rime costituisce il delicato supporto musicale di una discorsività sciolta, mentre l’ordito della metrica è caratterizzato da ricorsi irregolari di un flusso sinuoso e la sintassi scorre, si arresta, riprende. Il lessico, colto ed insieme elementare, oscilla perennemente tra figuralità naturale e allusività transnaturale.
Sono poesie che esprimono movimento, ricerca verso la consapevolezza della provvisorietà, del mistero, dei timori che gravano sulla condizione dell’uomo. Parlano del tempo e del suo fluire inesorabile, del senso misterioso del nulla e della provvisorietà che si consolida in immagini di vuoto, di silenzio che nello stile essenziale e scabro, privo di concessioni alla retorica, trovano il mezzo più consono per il raggiungimento di una forma pura. Con le parole e il colore, l’artista conquista una dimensione di spazio omogeneo e continuo, dove ogni campitura allude ad una vastità intesa in chiave interiore, dove rigore di forme e di lessico si compenetrano in emozioni che esprimono l’indicibile, il trascendente, il divino.

Il profilo

Il 1948 vide il suo esordio all’interno dell’ambiente cittadino, quando nelle sale del Caffè Pedrocchi espose alla Mostra del Quarantotto una serie di bozzetti di scena e prese parte al comitato ordinatore della rassegna, presieduto da Diego Valeri, con cui l’artista avrebbe instaurato un’amicizia fraterna. Nel 1951 fu presente alla riapertura della Biennale d’Arte Triveneta: d’ora in avanti, le partecipazioni dell’artista alle rassegne cittadine, ma non solo, si susseguiranno pressoché ininterrottamente. Nel 1959 sarà presente alla I Biennale Città di Parma, nel 1961 al Premio Burano, alla XII Mostra d’Arte Interregionale “Premio Copparo” in provincia di Ferrara e alla Prima Mostra della Federazione Nazionale degli Artisti a Padova. Nel 1984, assieme a Carlo Travaglia, Franco Flarer e Nerino Negri, partecipò alla mostra Emozione Astratta. Numerose anche le esposizioni personali presso le gallerie più accreditate di Padova: nel 1957 espose alla Galleria La Chiocciola di Sandra Leoni (dove sarà presente anche negli anni 1967, 1970, 1973, 1979 e 1983), nel 1961 e 1989 alla galleria Il Sigillo, nel 1971 alla Images ’70 di Gaetano Mastrogiacomo, nel 1981 presso la galleria La Cupola. In anni più recenti va ricordata la mostra del 2003 alla Galleria Fioretto, l’antologica Silvana Weiller Romanin Jacur. Dipinti e parole alla Sala della Gran Guardia del 2011 e la mostra Silvana Weiller Romanin Jacur. Sul filo del tempo 1948-1968 alla Filanda di Salzano nel 2012. Nel 2013 partecipò alla mostra Ebraicità al femminile. Otto artiste del Novecento al Centro culturale Altinate San Gaetano di Padova e nel 2014 all’esposizione Artiste del Novecento tra visione e identità ebraica tenutasi a Roma presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale. A partire dagli anni sessanta l’artista collaborò con riviste specializzate del settore, tra cui “Arte Triveneta” ed “Eco d’Arte Moderna” e con le principali gallerie d’arte contemporanea della città. Parallelamente, per quasi un ventennio, si occupò di “Cronache d’Arte” sul Gazzettino di Padova, recensendo mostre ed artisti presenti in città. Numerosi furono gli interventi all’interno della rivista “Il Sestante Letterario” mentre nel decennio successivo una ricca attività poetica la porterà ad instaurare un intenso rapporto collaborativo con il poeta ed editore Angelo Bellettato, fondatore delle Edizioni dei Dioscuri.