Storie di Libia – Daniele Buaron
Daniele Buaron, ebreo di Libia, nato a Tripoli nel 1950. Con la famiglia abitava in corso Vittorio Emanuele, accanto alla cattedrale. Il livello di osservanza era “normale”: osservavano le principali feste e lo Shabbat e mangiavano kasher. Per il resto delle tradizioni non erano molto religiosi. Non andavano spesso al Tempio, la preghiera la facevano a casa. La relazione con la comunità araba era discreta. La sua era una delle poche famiglie ebraico tripoline di nazionalità italiana, e quindi non venivano presi di mira dai libici. Daniele frequentava la scuola italiana. Aveva tra i suoi molti amici anche un paio di ragazzi arabi con i quali è ancora in contatto. Anche suo padre aveva tra i suoi dipendenti degli arabi. Possedeva una serie di negozi di fotografia e vendita di macchine fotografiche. Aveva l’esclusiva sulla Kodak in tutta la Libia e un giro di affari molto importante con la base militare americana, dove erano presenti oltre 15000 militari. Ma all’infuori della scuola e del lavoro, non avevano molti rapporti con la comunità araba. Il problema in quella terra, dice, era che i libici non provavano rancore e odio solo verso gli ebrei, ma anche verso gli italiani. E si percepiva molto questo astio nei loro confronti anche se non tutti sapevano che la loro fosse una famiglia ebraica. Per la strada, racconta, sia gli ebrei che gli italiani dovevano cercare di evitare i gruppetti di arabi per non incorrere in provocazioni, insulti o addirittura aggressioni. Ma c’erano anche alcuni libici di buon cuore che aiutarono la sua famiglia durante il pogrom. Lui non ha mai subito violenze e ha vissuto abbastanza tranquillamente. La sua esperienza del pogrom infatti fu un po’ diversa da quella vissuta da altri, perché la sua famiglia partì quasi all’inizio della Guerra dei 6 giorni. Suo fratello già viveva in Italia, studiava ingegneria al Politecnico di Milano con il loro cugino Roger Abravanel. Il primo giorno dopo la prima manifestazione suo padre uscì di casa e assistette a un fatto scioccante. Uno spazzino che stava raccogliendo delle foglie cadute all’improvviso assalì un suo amico ebreo con grande violenza e forse lo uccise, sopraggiunse una gran folla e temendo per la sua vita tornò di corsa a casa. Così nel giro di pochi giorni salirono sul primo aereo in partenza per l’Italia. Purtroppo in molti sottovalutarono la gravità della situazione. Pensavano forse che sarebbe accaduta la stessa cosa successa con gli altri pogrom. Dopo le manifestazioni e i disordini, ci si illudeva, tutto sarebbe tornato alla normalità. Anche se da più di un mese Nasser appariva spesso in televisione incitando gli arabi e dicendo che gli ebrei sarebbero stati tutti gettati in mare la gran parte degli ebrei non gli diede peso. La vita a Tripoli scorreva ancora tranquilla. Ma con lo scoppio della guerra gli arabi manifestarono in strada e incendiarono negozi, case e le macchine. Suo padre comprese da quell’aggressione che l’odio verso gli ebrei non fosse mai finito e che non si sarebbero fermati prima di averli massacrati tutti. Quindi fece partire prima la moglie e la figlia, quindi rimasero solo lui e suo figlio per permettergli di fare gli esami di maturità. Il giovane era convinto che se non si fosse diplomato al liceo libico, una volta in Italia lo avrebbero sicuramente retrocesso come minimo di un anno, se non addirittura di più. Rimasero chiusi in casa ma non soffrirono la fame, grazie ad un loro caro amico arabo che gli portò da mangiare tutti i giorni. Ma poi il libico fu minacciato e non poté più aiutarli. Fortunatamente l’ambasciatore italiano venne in loro soccorso. Essendo Daniele amico di suo figlio si occupò di fargli portare il cibo quotidianamente. Così il ragazzo poté fare gli esami accompagnato a scuola con la macchina dell’ambasciata. Era la fine di giugno e rimasero chiusi in casa per circa un mese. Appena finiti gli esami lo andarono a prendere a scuola poi andarono a prendere anche suo padre e li accompagnarono all’aeroporto. L’ambasciatore si raccomandò di non portare niente con loro, né valigie né preziosi. Non poteva seguirli alla dogana e non avrebbe quindi potuto intervenire se fosse successo qualcosa. Così si imbarcarono con solo i vestiti che indossavano. Al loro arrivo a Roma e poi a Milano non furono traumatizzati nell’essere mandati in campi di raccolta profughi. Trascorsero l’intera estate presso la villa dell’ambasciatore italiano. Daniele non fu traumatizzato dalla partenza forzata, grazie anche all’incoscienza della gioventù (aveva 17 anni). Aveva avuto a Tripoli, nonostante tutto, un’infanzia e un’adolescenza serena. Molte volte gli è stato proposto di tornare, ma ha sempre rifiutato. I suoi genitori invece tornarono, avendo dovuto abbandonare ogni cosa, ma non riuscirono a recuperare un granché. Solo qualche tappeto e poche cose tramite un loro amico arabo che riuscì a spedirle dalla loro casa. Vivendo in Italia, hanno continuato a coltivare le tradizioni ebraico tripoline. In special modo la cucina casher che sua madre ha preparato fino alla sua morte. Cosa che fa tutt’oggi anche sua sorella. Ai suoi figli non ha trasmesso molto dei suoi ricordi piacevoli e non di Tripoli. Si è sposato molto tardi e quando cerca di raccontare qualcosa ai figli di 14 e 16 anni vede che non sono molto interessati alle storie della Libia. Anche per lui è stato po’ difficile trasmettere tali ricordi, non avendoli vissuti veramente sulla propria pelle. Per questo è convinto che le tradizioni ebraico tripoline sarà difficile che i suoi figli le portino avanti nel futuro, nonostante abbia cercato di coinvolgerli portandoli spesso anche in Israele. Una volta che la sua famiglia si fu trasferita in Italia, racconta, si diedero tutti da fare per sopravvivere. Dopo la partenza forzata suo padre, che era proprietario di due appartamenti a Milano, ne vendette uno e poterono vivere con il ricavato. Fu molto dura, in special modo per i suoi genitori, vivere in un paese per loro sconosciuto. Dall’avere tutto a non avere più nulla. Pur di fare studiare i figli, si privarono di tutto. Ma non si scoraggiarono nonostante non sapessero nulla delle leggi e ordinamenti italiani. Non sapevano come tenere la contabilità di un’attività. In Libia si scrivevano solo entrate ed uscite. Non occorreva un commercialista. Ma i sacrifici dei suoi genitori diedero frutto. E molte furono le soddisfazioni nel vedere i loro figli avere una brillante carriera. Daniele a 21 anni si laureò alla Bocconi. Dopo due anni di servizio militare, andò a specializzarsi ad Harvard sempre con borse di studio. Lavorò a Wall Street e poi si trasferì a Londra. Lasciò l’Inghilterra per Parigi. Poi tornò a Milano e frequentò la facoltà di Economia e divenne assistente di Monti. La sua famiglia proveniente dalla Libia si è un po’ dispersa. Lui e sua sorella a Milano e suo fratello a New York. Si sente a casa a Milano, ma viveva bene anche a New York. Quando fu promosso e mandato a Londra non era molto contento, per questo preferì andare a Parigi. Ma poi, per aiutare il padre che era stato ingannato da un suo socio, tornò a Milano. Rimase per suo padre ma anche perché aveva deciso di cambiare attività. Così costituì una società con il famoso immobiliarista Arcabassi. Si occupò delle acquisizioni di grandi magazzini come la Rinascente. Si occupò anche di grandi compagnie di assicurazioni di cui per molti anni fu amministratore delegato. Ritornando alla Libia e alle ingiustizie fatte agli ebrei con la confisca dei beni, ritiene la possibilità di un risarcimento altamente improbabile. Lo dice per l’esperienza avuta dalla sua famiglia. Suo padre aveva fatto una richiesta di risarcimento che fu seguita da un loro parente avvocato. Dopo tante battaglie avevano ricevuto una proposta di “svendita” di ogni sua proprietà per circa un milione di lire. Oltre a quella ridicola proposta avrebbe dovuto fornire una serie di documentazioni molto complicate, muovendosi in una giungla di notai, avvocati, burocrazie varie. Lo Stato italiano era disponibile a risarcire, ma le valutazioni erano bassissime. E chiedevano una quantità di documentazione riguardo le proprietà dei negozi e della casa impossibili da evadere. A chi potevano richiedere determinate cose a Tripoli? Questo spiega l’impossibilità di essere risarciti. Diversamente crede che sarebbe importante preservare i pochi luoghi sacri rimasti in piedi. Sempre se si trovasse il modo di recarsi lì a visitarli. Perché se nei cimiteri e nelle sinagoghe non si può andare non vede “l’utilità di darsi da fare per preservarli”. Non crede che se cambiasse la situazione politica potrebbe cambiare la Libia. Sarebbe improbabile, perché la loro mentalità è sbagliata. Dovrebbero essere gli arabi semmai a costruire un monumento in memoria delle vittime dei pogrom del 1945/48 e 1967 e della Shoah. Fatto dagli ebrei stessi non sarebbe una buona idea. Perché potrebbero un giorno demolirlo o dissacrarlo. Lui personalmente non crede molto nei monumenti. Per quanto riguarda la domanda se la cultura tripolina abbia qualcosa da insegnare alle altre culture, risponde: “Forse la cucina, perché è ottima e sarebbe giusto tramandarla”. Invece il messaggio che vorrebbe lasciare alla progenie futura è quello dell’importanza dell’unità nella comunità e nella famiglia. È vitale anche coltivare se stessi come esseri umani. Tutto ciò è molto più importante dei beni materiali che possono essere perduti, così come è successo agli ebrei di Libia.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano