Davide e Micòl
Nel decimo Canto del Purgatorio, dedicato (come i due successivi) alla superbia, Dante fornisce una prova insuperabile non solo della sua poesia (sono qui formulati alcuni tra i versi più immortali della Commedia) e dell’altezza dei suoi valori morali (è qui offerta una delle più mirabili esaltazioni narrative di tutti i tempi dell’ideale della giustizia), ma anche della sua formidabile immaginazione, tale da potergli attribuire davvero paranormali capacità profetiche e visionarie: anticipa perfettamente, infatti, nel profondo Medio Evo, le potenzialità comunicative del cinema e della televisione.
Per fare risaltare la gravità del peccato di superbia (considerata, nel Siracide, 10.15, una diretta offesa a Dio) il poeta narra le storie di tre noti esempi del contrario della superbia, ossia l’umiltà.
I due viaggiatori, Dante e Virgilio, sono posti al cospetto di queste tre vicende attraverso la contemplazione di tre gruppi scultorei, in ognuno dei quali sono collocati due personaggi – uno maschile e uno femminile – protagonisti di tre celebri episodi biblici. Ma le statue parlano, si muovono, così come è animato lo sfondo sul quale si stagliano. Il cinema, la televisione. L’unica differenza, rispetto ai giorni d’oggi, è che tale miracolo è utilizzato per indicare esempi di massima virtù, cosa che non credo si possa dire del cinema e della televisione di oggi.
Il primo “cortometraggio” (34-45) è dedicato all’annunciazione. Esso non riguarda quindi la storia ebraica.
Sembrerebbe non riguardarla direttamente neanche il terzo episodio (73-96), il più famoso, nel quale si racconta dell’umiltà dell’imperatore Traiano, che fermò il suo esercito in armi per esaudire la richiesta di un’umile vedovella, che gli chiedeva di avere giustizia per il figlio ucciso. Anche se non si parla di storia di Israele, come ho avuto modo di osservare in altra occasione, tale narrazione mostra tuttavia l’assoluta priorità che, nella visione dantesca, assume l’idea di giustizia. Un’idea che, per la sua sacralità, inderogabilità e urgenza, è decisamente più vicina, come ho cercato di argomentare, al valore ebraico di “tzèdek” piuttosto che alla dimensione cristiana del concetto.
Protagonisti del secondo episodio (55-69) sono invece re Davide e Micòl.
Dante traduce in forma poetica il racconto del secondo libro di Samuele (secondo libro dei Regni nella Septuaginta e secondo dei Re nella Vulgata di Girolamo), nel quale si descrive il trasferimento dell’Arca dell’Alleanza da Epata a Gerusalemme. Il viaggio dell’Arca, si legge nel testo biblico, sarebbe stato un grande momento collettivo di festa e di giubilo, segnato da danza e musica, con il re in un’inedita funzione di “direttore d’orchestra” e “capo-cantore”: “Davide e tutto Israele danzavano innanzi al Signore, suonando ogni genere di strumenti di legno: cetre, lire, timpani, sistri e cimbali” (6. 5). Ma, una volta entrati in città, “Micòl, figlia di Saul, guardando da una finestra, vide il re Davide che saltava e danzava di fronte al Signore e lo disprezzò in cuor suo” (6. 16).
La narrazione è resa dal poeta con grande fedeltà, e mirabile capacità di sintesi: “precedeva al benedetto vaso,/… l’umile salmista,/ e più e men che re era in quel caso./ Di contro…/ Micòl ammirava/ sì come donna dispettosa e trista” (X. 64-68). Il re è “umile”, e non esita a esibirsi nella danza e nel canto per manifestare la sua gioia nel servire Dio. Ma Micòl, evidentemente non animata da altrettanta fede, non capisce quel comportamento, e ritiene che, con quel comportamento, il re stia sminuendo il suo decoro di sovrano. Micòl giudica secondo il metro del potere e del prestigio terreni, mentre Davide agisce da servitore del Signore, un ruolo che richiede, innanzitutto, umiltà. Perciò, con la sua danza e il suo canto egli era “men che re” (un re non balla e non canta), ma anche “più che re” (perché usava il suo ruolo regale nel migliore dei modi, per rendere lode a Dio).
Dante non ricorda Davide per le sue gesta militari, o per altri episodi famosi della sua vita, quali l’invaghimento per Betsabea, lo scontro col figlio Assalonne, il duello contro Golia, ma per le sue doti di artista (poeta, cantore e danzatore), tutte spese al servizio del Signore. E il “cortometraggio” ce lo consegna così, con versi di intensa poesia.
Manca, però – solo, stranamente, in questa scena – la colonna sonora. Dante dice che, con gli occhi, vedeva il popolo d’Israele cantare, ma con l’udito non sentiva il canto (X. 59-60). È un cinema muto, non sonoro. E ci permettiamo allora di inserirla noi, attingendo alla musica e ai versi di un altro grande poeta che ha contribuito, sette secoli dopo Dante, alla gloria di Davide, Leonard Cohen: “I’ve heard there was a secret chord/ that David played, and it pleased the Lord”. Esiste una corda segreta della lira che Davide sapeva toccare per lodare il Signore.
La corda è segreta, non tutti possono trovarla. Per riuscirci, non occorre essere un potente re. Basta – ma forse è ancora più difficile – essere umili.
Francesco Lucrezi
(1 giugno 2022)