Il ’38 e la persecuzione economica

I romani non conoscono le bellezze di Roma. Vero. Da romana lo sperimento nelle mie passeggiate quotidiane in centro città. E ne ho avuto ulteriore conferma negli scorsi giorni quando, invitata dal Presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma Mario Venezia a presentare un libro, sono entrata nello splendido Palazzo Besso a Largo di Torre Argentina, sede delle due Fondazioni Ernesta Besso e Marco Besso.
Un sontuoso palazzo ricco di cultura ed opere d’arte, magnificamente ristrutturato e conservato, acquistato dall’ebreo Marco Besso nell’800 – ho subito pensato – non poteva essere cornice migliore per discutere del volume della storica Ilaria Pavan, dedicato a “Le conseguenze economiche delle leggi razziali” (II ed., Il Mulino, 2022). Sono infatti la Presidente della Fondazione Ernesta Besso, Caterina De Mata e poi lo storico Amedeo Osti Guerrazzi ad accennare a come la Fondazione Marco Besso riuscì a sottrarsi alla liquidazione imposta dal regime fascista grazie alla “arianizzazione” del suo consiglio (ossia alla sostituzione con membri cattolici della famiglia). Stessa sorte non toccò invece alla fondazione Ernesta Besso. Quando mi è stato rivolto l’invito a presentare questo libro nutrivo dei dubbi sul reale contributo che un professore di diritto, avvezzo alla speculazione ma poco pratico di aule giudiziarie, potesse dare. Ma la lettura delle pagine della professoressa Pavan mi han fatto ricredere. Si tratta di un libro di storia sociale importante che fa luce su molti aspetti della lunga “persecuzione economica” subita dagli ebrei nell’Italia fascista in tutto il periodo che va dal 1938 al 1945.
E lo è a mio avviso, per diversi motivi.
Il libro porta avanti tre temi che costituiscono la parte principale, ancorchè non esaustiva, della persecuzione economica degli ebrei in Italia: Reintegri, Restituzioni e Risarcimenti.
Letto con le lenti del giurista, a ciascuno di questi temi corrisponde un fascio di diritti, che vengono prima lesi dalla legislazione antiebraica e poi molto faticosamente ristorati nel dopo guerra. E vi corrispondeva un fascio di diritti anche nella vigenza dello Statuto Albertino (ossia la costituzione in vigore ai tempi del Fascismo).
Il Reintegro è infatti il ristoro della lesione al diritto al lavoro (soppresso per gli ebrei impiegati pubblici, e poi anche privati già dal ‘38). La Restituzione ristora la lesione dei diritti sui beni materiali (come la proprietà di case, aziende, conti bancari, assicurazioni, opere d’arte, fino alle più minime suppellettili). I risarcimenti (come assegni di benemerenze, pensioni, risarcimenti in senso stretto) riparano la lesione al diritto della persona umana: quello alla vita, la libertà, la sicurezza, la dignità (e può giungere fino alla soppressione, cioè l’avvio ai campi di sterminio).
Per ciascuno di questi temi il libro offre una disamina puntuale delle misure limitative antiebraiche adottate a livello legislativo, di quelle attuative nonché dell’applicazione datane dagli apparati amministrativi centrali e locali deputati.
In linea con la storiografia classica (ed anche con il contenuto dei provvedimenti legislativi post-bellici in tema di ristori), Pavan distingue l’analisi nei due periodi ‘38-’43 e post-8 settembre ’43 fino alla Liberazione (avvenuta come noto in date diverse del biennio 1944-45: giugno 1944 a Roma, agosto 1944 a Firenze, aprile 1945 a Milano e Venezia).
Tuttavia, pur con questa scissione della linea del tempo, la tesi centrale del libro di Pavan è che non vi sia alcuna cesura nella politica persecutoria antiebraica in campo economico. E che ciò che accade nel biennio ‘43-‘45 è il mero passaggio della persecuzione patrimoniale dall’amministrazione centrale a quella locale (della RSI), ma che questa continui ad amministrarla non solo in piena autonomia rispetto all’occupante nazista, ma con uno zelo antiebraico pari se non maggiore al periodo precedente.
La tesi si riflette nel metodo impiegato dall’autrice: Pavan abbina l’analisi del singolo provvedimento legislativo e della sua attuazione amministrativa da parte degli apparati burocratici con l’indagine di microstorie relative alle reazioni dei singoli.
Così, mentre ci illustra gli effetti del decreto regio del febbraio del ‘39 (p. 84), in base al quale le aziende appartenenti ad ebrei (con più di 100 dipendenti e relative ad interessi nazionali) vengono poste in amministrazione straordinaria da parte di un commissario e poi liquidate, ci narra storie di quanti si sono prodigati in pratiche elusive della norma, ad esempio intestando le aziende a mogli non ebree. Oppure ci racconta la storia delle aziende romane di Amilcare Piperno che furono aggiudicate ai dipendenti, con l’insolito placet del Duce.
Il grande merito di Pavan in questa indagine è di produrre numerosissimi documenti su espropriazioni e confische, allontanamenti dal lavoro ed atti persecutori, che aiutano a chiarire l’atteggiamento delle popolazioni locali, degli amministratori (centrali e locali) dei semplici vicini sull’applicazione di un apparato di norme relative alla persecuzione economica ebraica che, lo ripete spesso, è sempre una questione di autorità italiane. Un apparato che non solo è in continuità ideologica tra periodo pre e post-armistizio, ma è in continuità anche sul piano dell’uso dell’antisemitismo in funzione di collante e come ratio giustificatrice dei provvedimenti di persecuzione economica.
Proprio sul profondo radicamento dell’antisemitismo nel fascismo, ho trovato interessante la sua attenzione alla microstoria. Leggendo delle Robinetterie Riunite di Federico Jarach, ad esempio, mi è tornata alla mente la lettura di Bernstein “Storia del fascismo”. Là dove Bernstein ci ricorda che molti ebrei erano squadristi ed aderenti al PNF per proporre la sua nota tesi che è solo con le leggi razziste del ‘38 che il Fascismo diviene un regime totalitario “molto meno imperfetto”, Pavan ci narra di come il titolare delle Robinetterie Riunite, pur se iscritto al PNF dal 26, non sia riuscito ad evitare la vendita della sua società, perché avvinto nel giogo di Starace e Alberici.
Mi domando se la dicotomia “persecuzione dei diritti” e “Persecuzione delle vite” (Sarfatti), comunemente usata in storiografia per distinguere il periodo 1938-‘43 e il biennio ‘43-‘45 possa ancora oggi dirsi adeguata o attuale.
Me lo chiedo da giurista. Sotto il profilo nominalistico certamente è fuorviante.
Partiamo dalla persecuzione o afflizione del diritto al lavoro o dell’azienda. La perdita di questo è per taluni significato la perdita di fonti di sostentamento, pensiamo alle famiglie numerose. In casi estremi può certamente aver comportato la morte. E’ dunque improprio in questo caso parlare di sola persecuzione dei diritti, escludendo che vi sia stato impatto sulle vite.
All’opposto, la persecuzione delle vite pure è fuorviante sul piano nominalistico. Perché il bene giuridico per eccellenza è senza dubbio la vita. Limitare o perseguitare con atti di violenza la vita fino ad arrivare anche a sopprimerla significa limitare un diritto. Anzi, significa limitare il principale diritto. Che ai tempi si sarebbe definito naturale, oggi diremmo fondamentale.
Fuori dal piano nominalistico, il punto è evidentemente altro e altrove.
Pavan non menziona quasi mai (salvo un breve accenno a p. 245) il mito del “buon italiano”, cui quella dicotomia (“Persecuzione dei diritti” vs “Persecuzione delle vite”) è strettamente connessa, per non dire funzionale, ma documenta incessantemente le reazioni di amministrazioni, enti, imprese, gente comune e degli stessi ebrei perseguitati ad ogni provvedimento.
Ne emerge un quadro dicotomico, certo, ma che per un giurista non andrebbe classificato in termini di tipi di beni giuridici (o di diritti) violati, bensì in termini di “incisività” delle misure adottate e di “grado di applicazione” delle stesse.
Così nel primo quinquennio la limitazione dei diritti di proprietà, di lavoro (scuola) e della persona sono incisivi, ma ammettono eccezioni (come le discriminazioni), e soprattutto sono applicati in maniera “discontinua”, lasciando ampi margini per la discriminazione, e spazi per comportamenti elusivi (come l’intestazione di beni a famigliari non ebrei o a prestanome). Sul fronte delle reazioni delle popolazioni locali la delazione e l’approfittamento sono presenti, ma è l’indifferenza alle sorti dell’ebreo il maggiore propellente che supporta la piena applicazione della persecuzione antiebraica.
Nel secondo periodo, invece, le misure limitative e ablative dei diritti si fanno più numerose e gravose (includendo l’arresto e la deportazione dal 1943) e vengono applicate con la medesima pedissequa solerzia tanto dai funzionari dell’EGELI (p. 125) quanto (se non peggio) dagli emissari locali (come la Banda Martelloni, amnistiata nel 1946 e rimasta impunita) (p. 130).
Emblematico e terribile è l’elenco dei beni o suppellettili confiscati e pubblicati in Gazzetta Ufficiale, ove compaiono, accanto a tre calze usate e giocattoli, anche tre clisteri.
Sul coinvolgimento della popolazione italiana in questa fase, Pavan è esplicita e definitiva. A p. 236, parla di approfittamento, di persone che accolgono con soddisfazione l’espulsione e la rimozione degli ebrei dal contesto sociale ed economico italiano, e di redistribuzione di ricchezza.
Allora mi sentirei di dire che il dato giuridico, abbinato all’analisi storico-sociale di Pavan, mostri che ciò caratterizza il periodo ‘38-‘45 non sia una dicotomia, bensì un graduale ma non lineare aggravamento del livello di incisività sui diritti individuali (lavoro, persona, proprietà) combinato ad un crescente capillare grado di applicazione delle misure antiebraiche.
Ciò che resterebbe costante invece sarebbero: (1) il clima e la propaganda antisemita del regime, (2) la pedissequa macchina burocratica, e (3) la connivenza o l’indifferenza stolida dell’italiano che, salvo eccezioni – troppo acclamate – approfitta della debolezza dell’ebreo procurata per legge.
La indagine di Pavan è tanto importante quanto agli inizi. Ci si augura che il suo lavoro diventi un filone che getti luce anche su altre tematiche, alcune delle quali non trattate per stessa ammissione dell’autrice (come il recupero del patrimonio culturale, cioè non artistico). Ma forse andrebbero anche considerati: la precettazione degli uomini per i lavori forzati; le fughe e gli espatri senza ritorno, che ebbero certamente costi e conseguenze economiche. Su questo ed altro mi sentirei di suggerire un ottimo saggio di Giulio Disegni apparso sulla Rassegna Mensile di Israel nel 2022. Disegni ricorda infatti che le discriminazioni nei confronti degli ebrei lesive dei diritti fondamentali e della dignità della persona “hanno toccato i diversi settori della vita sociale” oltre ai temi trattati da Pavan: “dalla scuola .. all’esercizio delle professioni .. le persone .. il nome .. le successioni .. la materia matrimoniale” (G. Disegni, L’assegno di benemerenza. criticità e prospettive nella normativa per i perseguitati razziali, RMI, 2022, p. 17-18).
Inoltre, la pur copiosa documentazione prodotta e quella esistente (come il Rapporto della Commissione Anselmi) ancora non consente di ricostruire l’impatto economico complessivo delle leggi razziali in Italia. Conosciamo dati parziali, ma fatichiamo a ricostruire il quadro globale, così da poterlo confrontare con quello di altri Stati. Ad esempio, in tema di espropriazioni e confische, sappiamo che delle 24 aziende commissariate per effetto del decreto del 2/1939 solo 12 tornarono in attività a fine guerra (p. 84). Ma non conosciamo qual è la perdita sociale (la “conseguenza economica”) stimata di quelle che non sono tornate in attività.
Oppure in tema di reintegri sul posto di lavoro, conosciamo le cause sulle ricostruzioni delle carriere, ma fatichiamo ad esempio a conoscere l’impatto economico di quanti non vi tornarono. Indagine che potrebbe giovarsi di un confronto con dati similari in contesti pur diversi, oppure di indagini sociologiche come quelle condotte dall’UCEI sulla realtà dell’ebraismo italiano. Ad es., quanti professionisti ebrei vi erano prima e dopo la guerra? Quanti oggi? Quanta parte della popolazione ebraica appartiene oggi alla classe dirigente dell’apparato statale?
Infine una considerazione sul cosiddetto mito del “buon italiano”: come ho detto, esso resta nell’ombra, ma è il vero bersaglio del volume.
E torna nell’ultima parte del libro, dedicato al periodo post-bellico e alla difficilissima e lenta reintegrazione dell’ebreo nel tessuto economico italiano. Con metodo affatto diverso (visto anche il poco tempo che la separa dagli eventi), Pavan ricostruisce le vicende legali, politiche e sociali dei Reintegri, Ristori e Risarcimenti.
Il “buon italiano” torna.
È nel membro della Commissione per gli assegni di benemerenza della Legge Terracini del 1955 (tuttora vigente e finalmente modificata nel 2021, per renderla omogenea agli omologhi internazionali), che ostinatamente rifiuta il beneficio del vitalizio a quasi tutti i richiedenti con obbrobriose motivazioni.
È nel magistrato della Corte dei conti che, fino all’importante révirement del 2014 (!), rigetta i ricorsi a tutti quanti fanno appello perché non ritiene sufficiente che lo Stato italiano abbia adottato leggi contro gli ebrei, ma richiede la prova di un atto specifico di discriminazione.
È nel silenzio della stampa nazionale sui lavori della Commissione Anselmi e sul rapporto di 600 pagine che essa produce nel 2000.
È nella Pinacoteca di Brera che rifiuta la restituzione del quadro ai legittimi proprietari ebrei spoliati (poi soddisfatti in territorio americano, grazie al clima positivo generato dalle Holocaust Litigations).
Ed è nella retorica dei discorsi presidenziali del Giorno della Memoria che troppo celebrano i pochi Giusti mancando di condannare i troppi colpevoli (con la notevole inversione di rotta del Presidente Mattarella).
Una nota di cautela e un augurio.
La ferma condanna degli episodi di mancato ristoro, di mancata condanna, quando non di rimozione storica e di “astenia” sulle iniziative future non deve cessare. Ma si deve fare lo sforzo di cercare tra le molte possibili spiegazioni. E’ il caso del recentissimo decreto-legge n. 36/2022 che ha fissato un termine di (un solo) mese per far causa alla Germania al fine di ottenere risarcimenti dei crimini di guerra (non solo le persecuzioni antiebraiche). Questo termine perentorio è certamente beffardo per quanti, tra privati ed associazioni, non hanno mai ottenuto nulla e non riusciranno (anche per le condizioni stringenti fissate dalla norma) ad ottenerne. Ma le controverse ragioni ispiratrici di questo dl sembrerebbero avere a che fare con conflitti istituzionali interni ai diversi rami dello Stato ed alle relazioni con la Germania.
Il messaggio del libro è che la lentezza dei Reintegri, Ristori e Risarcimenti sia in larga parte attribuibile sia a fattori storici (l’amnistia togliattiana troppo presta, non avere fatto i conti col proprio passato, ecc.), sia ad una legislazione molto restrittiva che costituisce un unicum nel panorama internazionale, sia ad una burocrazia pedissequa poco edotta dei fatti storici.
È forse giunto il tempo che il Giorno della Memoria diventi l’occasione per operare non solo sulle emozioni, ma sulle istituzioni (normatori e amministratori) affinché si diffonda presso di esse la cultura della Responsabilità e del Ristoro dei diritti.

Fabiana Di Porto

(2 giugno 2022)