Periscopio – La pupilla
Abbiamo parlato, nella scorsa puntata, di come Dante, nel X Canto del Purgatorio, esalti la grandezza di re Davide, di cui, in una sorta di cortometraggio (nel quale le figure di un gruppo scultoreo si animano innanzi a chi le guarda), è narrato il trasferimento dell’Arca dell’Alleanza da Epata a Gerusalemme. Un passo in cui è espressa la grande ammirazione per “l’umile salmista”, di cui sono sottolineate l’alta virtù dell’umiltà e le doti di artista (poeta, cantore e danzatore).
Ma la venerazione riservata a Davide non si ferma a questo, in quanto egli ha l’onore di essere menzionato ed elogiato in tutte e tre le Cantiche, così rimarcando l’assoluta eccezionalità della sua figura. Oltre al citato passo del Purgatorio, il sovrano è ricordato da Virgilio nel quarto Canto dell’Inferno (58), ove il poeta racconta di avere assistito personalmente alla sua ascesa in Paradiso, insieme alle altre anime dei giusti dell’Antico Israele (Abramo, Giacobbe, Mosè, Rachele e altri). Nel ventesimo Canto del Paradiso, infine, Dante ha l’opportunità di incontrarlo di persona, in una posizione di assoluta preminenza. Egli è infatti una delle stelle che, con la loro luce, delineano il profilo dell’aquila di Roma, simbolo della giustizia. Insieme ad altri cinque grandi spiriti giusti (Traiano – al re associato anche nel Purgatorio -, Ezechiele, Costantino, Guglielmo d’Altavilla e l’eroe troiano Rifeo), in particolare, il re dà forma, con la sua luce, alla parte più nobile dell’aquila, ossia l’occhio. Come, con la sua formidabile vista, dall’alto del cielo, l’aquila vede le cose terrene, così è per la giustizia di Roma.
Del re, come già nel Purgatorio, è ricordato il suo essere stato il “cantore” di Dio e l’avere assolto al sacro compito del trasferimento dell’arca a Gerusalemme (38-39). E, tra i sei spiriti giusti, tutti grandi, è evidente che è egli a occupare una posizione di spiccato privilegio: è il primo a essere nominato, e la sua luce è quella della pupilla dell’occhio, mentre le altre cinque ne disegnano le ciglia. Nessuno fu più giusto di Davide (proprio perché peccò, ma ebbe l’umiltà di pentirsi), e non c’è valore superiore a quello della giustizia.
Di questa raffigurazione preme evidenziare tre cose, due di ordine teologico, l’altra di tipo artistico.
La prima è che, ad avere l’onore di dare luce all’occhio dell’aquila, sono due ebrei (Davide ed Ezechiele), due pagani (Traiano e Rifeo) e due cristiani (Costantino e Guglielmo). E lo stesso poeta sottolinea l’apparente stranezza del fatto che dei pagani possano stare in Paradiso, e in posizione così elevata (“Chi crederebbe giù nel mondo errante/ che Rifëo Troiano in questo tondo/ fosse la quinta delle luci sante?”: 67-69). Si tratta, spiega la stessa aquila, di un mistero della grazia divina. Ma, in realtà, conoscendo il mondo valoriale di Dante, il mistero non appare poi tale: il valore della giustizia è il più alto di tutti, e Rifeo è fuggevolmente ricordato, da Virgilio come “iustissimus unus” (Aen. II. 426). Tutti coloro che hanno servito la giustizia hanno onorato il loro essere uomini, e meritano il Paradiso. Dante non arriva a dire questo, esplicitamente, sul piano teologico, ma ce lo fa capire con la sua poesia. Il suo Paradiso non è solo cristiano.
La seconda considerazione teologica è che in nessuno dei tre luoghi in cui Dante menziona Davide (nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso) si fa mai riferimento al suo legame col Nuovo Testamento. Da Davide, com’è noto, sarebbe disceso il Messia, che per Dante, ovviamente, è già arrivato. Ma di questo il poeta non parla. A mio avviso, si tratta di un silenzio voluto. Il poeta rispetta l’ebraicità dell’”umile salmista”, non lo vuole ‘cristianizzare’. La storia di Israele, di per sé, è già storia sacra.
L’ultima annotazione, di carattere artistico, riguarda la mirabile descrizione con cui il poeta illustra il modo in cui l’aquila parla: “E come suono al collo de la cetra/ prende sua forma, e sì com’ al pertugio/ de la sampogna vento che penétra,/ così, rimosso d’aspettare indugio,/ quel mormorar de l’aguglia salissi/ su per lo collo, come fosse bugio” (22-26). Il collo dell’aquila diventa parte di uno strumento musicale (una cetra o una zampogna), e la luce delle stelle diventa parola parlata. Un’immagine di sublime poesia, evidentemente collegata alla successiva evocazione di Davide “cantore”, e che richiama, per contrappasso, la celebre immagine della “fiamma antica” (Inf. XXVI. 85) da cui esce la voce di Ulisse, che racconta la sua perdizione. In entrambe le immagini, vediamo delle figure luminose non umane (l’aquila e la fiamma) da cui esce una voce. E in entrambe la luce viene dal fuoco: le stelle dell’aquila sono dei fuochi. Ma il fuoco di Davide è nel cielo di Giove, quello di Ulisse sottoterra, nell’Inferno. Anche se siamo tutti innamorati – e Dante per primo – del coraggio di Ulisse, memore della suprema missione dell’uomo, chiamato a servire “virtute e canoscenza” (120).
Ma il viaggio di Ulisse è “in orizzontale”, quello di Davide “in verticale”. È questo che segna la differenza del destino tra i due grandi personaggi.
Francesco Lucrezi