Machshevet Israel
Perla aggadica

È arrivato un nuovo trattato in traduzione italiana del Talmud, Meghillà (edito da Giuntina, a cura di rav Michael Ascoli), ma io non ho ancora finito di ‘ponzare’ sul volume precedente, l’arduo Betzà/uovo. Come mi ha confermato rav Gianfranco Di Segni, che dell’intero progetto traduttorio è il coordinatore, betzà qashà, che in ebraico vuol dire ‘uovo sodo’ ma indica anche quanto difficile sia questo trattato dedicato soprattutto all’halakhà dello Yom Tov. E visto che abbiamo da poco celebrato Shavu‘ot cioè “il tempo del dono della nostra Torà”, quasi a prolungare il tiqqun lel Shavu‘ot vorrei tornare su una sugyà aggadica dedicata al dono della Torà, Betzà 25b (dicasi sugyà una breve unità letteraria del testo talmudico), che propongo come una perla aggadica che stimola a pensare. Si tratta infatti di un brano che si aggancia ad alcune riflessioni su delle piante simboliche, come la cipolla marina o il lupino: quest’ultimo, pur essendo per natura amaro e qui cifra della trasgressione, perde la sua amarezza dopo essere stato cotto sette volte, dove ‘cottura’ indica chiaramente la teshuvà.
In modo solo all’apparenza estemporaneo, leggiamo qui quanto è stato tramandato in una baraità [l’insegnamento di un tannaita non riportato nella Mishnà]: “Viene insegnato a nome di rabbi Meìr: Per quale motivo la Torà è stata data proprio ai figli di Israele? Perché essi sono sfrontati”. Beh, di tutte le motivazioni questa non è la più intuitiva. Più logico quel che dice Obadiah Sforno, commentatore di età rinascimentale: la Torà è stata data affinché Israele la insegnasse al mondo diventandone, per così dire, un kohen, un sacerdote universale. Israele è tutto ‘popolo di sacerdoti’, secondo la Torà stessa, e il suo ruolo nel mondo è insegnare Torà. Rav Elia Benamozegh l’ha scritto più volte nelle sue opere. Perché allora dire che essa è stata data perché i ‘figli di Israele sono sfrontati’? Secondo Rashì, la Torà serve a Israele esattamente per tenere a freno la propria sfrontatezza. Del resto, l’intera Torà insegna a mettere un freno alla natura umana, a porre limiti e riconoscere i confini, a contenerci nell’uso del mondo (è il messaggio complessivo di Betzà, dunque siamo in tema). Ma dire ‘sfrontati’ non sembra un complinento. Si sta forse alludendo alla proverbiale cutzpà, ben nota nella società israeliana? Questa, a ben vedere, è un’attitudine ambivalente: può indicare insubordinazione alle regole o alla buona educazione (derekh eretz) ma può anche indicare testardaggine e intraprendenza nonostante le regole e i condizionamenti esterni…
Al motivo della sfontatezza sembra credere, oltre che la scuola di rabbi ‘Aqivà (da cui viene rabbi Meìr), anche la scuola di rabbi Yishmael, la quale, commentanto il versetto ‘Dalla Sua mano destra porse loro la Sua Legge di fuoco’ (Devarim 33,2), insegna: “Disse il Signore benedetto: Essi meritano che venga data loro una legge di fuoco [che migliorerà la loro difficile natura, spiega il traduttore italiano]. C’è chi dice [ecco un’altra interpretazione]: La loro condotta è focosa al punto che, se la Torà non fosse stata data al popolo di Israele, nessuna nazione o popolo sarebbero stati in grado di resistere loro”. Si rimanda qui a una terapia omeopatica? Una natura focosa va curata con una legge di fuoco, altrimenti tale natura folgorerebbe le altre nazioni. Il servizio sacerdotale al mondo, potremmo concluderne, non deve annientarlo ma illuminarlo e trasformarlo. A questo punto la sugyà riporta un commento di rabbi Shimon ben Laqish: “Ecco tre esempi di sfontatezza: tra le nazioni, il popolo di Israele; tra gli animali, il cane; tra i volatili, il gallo. E c’è chi dice: tra gli animali domestici di piccola taglia, anche la capra; e tra gli alberi, anche il cappero”. Sulla simbologia degli animali lascio che talmudisti e classicisti si sbizzarriscano nelle decifrazioni.
Sul cappero, invece, una nota al testo di Betzà ricorda come Rashì ammetta di “non sapere in cosa consista la sfrontatezza del cappero”. Le Tosafòt invece riportano diverse spiegazioni. Vorrei di mio aggiungerne due. Prima ipotesi: se Rashi, invece che nello Champagne, avesse vissuto a Roma, avrebbe visto la determinazione – che rasenta una simbolica sfrontatezza – della pianta di cappero, che spunta dalle piccole fessure delle mura aureliane della città eterna e cresce e fiorisce a dispetto della poco terra in cui ha messo le sue (evidentemente robuste) radici. La sfontatezza del cappero, tendo a pensare, consiste nel suo ostinato abbarbicarsi tra pertigi quasi inaccessibili, dove le condizioni sono difficili, e lì fiorire e dare frutti nonostante tutto. Seconda ipotesi: Rashì conosceva bene l’assonanza tra qafres (cappero, in ebraico) e Kipros, Cipro intesa come isola nota per la sua produzione di capperi; ma dove sta, dev’essersi chiesto, la sfrontatezza di questa bella pianticella? Forse nell’assonanza della parola qafres con la parola apiqoròs, dove compaiono le stesse consonanti (con in più solo l’alef iniziale, che è muta). Apiqoròs nella letteratura talmudica è l’eretico, colui che nega il valore della Torà e della tradizione, un trasgressore che ‘taglia i germogli’ e non si pente e che, come un lupino non cotto sette volte, mantiene un gusto amaro e resta nella sua amarezza. E poi, anche i capperi per conservarli edibili vanno messi sotto sale…

Massimo Giuliani, università di Trento

(8 giugno 2022)