L’alfabeto universale
In politica l’appello ai sentimenti e alle emozioni corrisponde quasi sempre alla manipolazione, se non alla nullificazione, di qualsiasi progetto razionale. Gli uni e le altre non sono in sé l’inverso della ragione ma spesso ne costituiscono un filtro che rischia di impedire di vedere oltre se stessi, quindi le proprie paure e il loro grigio orizzonte, nel quale tutto può invece apparire come obbligatoriamente scontato e immutabile. Questo rischio è tanto più accentuato in un periodo quale quello che stiamo vivendo, dove molto spesso disorientamento e stanchezza hanno la meglio su speranza e investimento. Anche per una tale ragione non bisogna mai confondere le credenze con le conoscenze. Se le prime hanno a che fare con i convincimenti più radicati, e possono essere di guida per l’individuo, solo le seconde si trasformano in progetto condiviso per un’intera collettività. Le conoscenze non sono fredde nozioni ma assunti verificabili, che non si rifanno a rigide categorie morali bensì a codici di comprensione della nostra società. La distinzione tra opzioni personali e nozioni universali è allora tanto più preziosa se si vogliono evitare le derive dei relativismi, dei fatalismi e degli integralismi. Tre condizioni apparentemente distinte ma che spesso, invece, si intrecciano tra di loro, alimentandosi reciprocamente. La nostra è un’età di pluralismo senza centro: coesistono molte identità, fortemente intercambiabili, fluide come il tempo che stiamo vivendo, in sintonia con la frammentazione delle società e delle esistenze che ad esse si accompagnano. Si tratta di identità deboli, poiché basate molto sull’egotismo, ovvero sul pensare ciò che ci circonda solo in relazione a se stessi. Il fraintendimento comune è quello in cui si scambia una tale condizione per una sorta di progetto politico, che invece non si dà, non certo con tali premesse. Per capirci, in atto non c’è nessun declino (o presunto tradimento) dei «valori» ma la necessità di comprendere quali siano il senso e l’indirizzo del tempo che sta subentrando, attraverso un alfabeto universale che non sciolga le differenze ma riesca a farle coesistere e comunicare. Risparmiandoci soprattutto la tentazione di rinchiudersi dentro il proprio recinto, come se ciò fosse garanzia di sopravvivenza. Come disse qualcuno, quasi cento anni fa: «la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati». E la morbosità nostra è l’incapacità di raccontarci, di descriverci, di relazionarci senza fare ricorso al linguaggio ingannevole del livore e dell’impotenza, del risentimento e del trauma perenne. Una collettività di vittime, una nazione di offesi, una comunità di presunti oppressi non saprà mai emanciparsi da quelle paure di cui essa stessa si alimenta quotidianamente.
Claudio Vercelli