Storie di Libia – Raffaele Genah

Raffaele Genah, ebreo di Libia, nato a Tripoli nel 1954. Nella sua famiglia di origine, arrivata in Libia chissà quando – forse cento, forse mille anni fa – il livello di osservanza delle Mizvoth era “alto, attento, mai eccessivo”. Le tradizioni erano rispettate e tramandate e non imposte, semplicemente mettendole in pratica giorno per giorno. La cucina kosher, le feste, lo Shabbat al Tempio ad esempio. All’età di 11 anni, nel 1965, insieme alla sua famiglia lasciò la Libia. Suo padre si ammalò gravemente e partirono di corsa per Italia, lasciando dalla sera alla mattina la scuola, gli amici, la famiglia. A Roma furono inizialmente ospitati da due sue sorelle che studiavano all’Università. Purtroppo suo padre morì nel ‘66, prima del suo Bar-Mitzvah. Essendo rimasto orfano ebbe la possibilità di celebrarlo con il rito romano prima del suo tredicesimo compleanno, proprio per poter recitare il kaddish. I suoi maestri spirituali, che ancora ricorda con profondo rispetto e gratitudine, furono il Rav Vittorio Della Rocca e il Rav Elio Toaff.
Essendo in Italia da ormai quasi due anni, il pogrom del 1967 lo ha vissuto di riflesso, ma ugualmente con grande ansia e partecipazione emotiva. Una parte della famiglia era infatti rimasta in Libia. Giungevano continuamente notizie molto preoccupanti e tutti erano preoccupati dalla tragedia che si stava consumando. Ma ci fu una grande prova di unità e solidarietà. I profughi tripolini furono accolti e sostenuti per un periodo di tempo dalla Comunità ebraica i Roma e dalla rete solidaristica che gli stessi ebrei tripolini e bengasini avevano costruito. Li aiutarono reperire e ad affittare stanze e case, oltre a locali per pregare.
Naturalmente il carattere fiero e propositivo tipico della nostra gente ha spinto tutti a rimboccarsi le maniche, a non piangersi addosso, a cominciare una nuova vita, certamente non priva di difficoltà. Raffaele è molto legato alla comunità tripolina – che considera la sua grande famiglia – con tutte le sue tradizioni religiose, culturali e perfino gastronomiche, e crede che debbano essere assolutamente preservate, insegnate, sempre senza imposizioni. “Sono tripolino di nascita, ma le generazioni che ci seguono possono esserlo anche per libera scelta”, è il suo pensiero. Nessuna imposizione, nessun obbligo. Gli unici doveri, oltre a quelli che ogni ebreo ha succhiato con il latte materno, dovrebbero essere verso la memoria delle cose accadute in Libia. Niente deve essere dimenticato e dissolversi nell’oblio.
Non ha mai avuto difficoltà a condurre in famiglia una vita ebraica. La cucina è sempre stata strettamente kosher. Ogni tradizione veniva rispettata. Tutto ciò lo ha trasmesso al proprio figlio, che è pronto a sua volta a tramandare tutto ciò che ha appreso della nostra storia e della nostra cultura. Tutto questo però non cancella la gratitudine verso l’Italia, la nazione nella quale è cresciuto e che gli ha dato la possibilità di crearsi un futuro, di laurearsi, lavorare, costruire una sua famiglia a cui è molto legato. Ma – insiste – non bisogna mai dimenticare le proprie radici. Di Tripoli non ha nessuna nostalgia. Pur comprendendo chi prova questo sentimento, pensa che nessun ebreo libico dovrebbe averne ripensando a quella terribile esperienza.
Le violenze, la discriminazione, il bullismo e le molestie. Tutti dovevano continuamente avere a che fare con le prepotenze e i soprusi subiti quasi quotidianamente. In definitiva, lasciare quel paese si è rivelato un grande regalo venuto dall’Alto. Tutti hanno imparato ad apprezzare nuovi valori come la libertà di essere se stessi. L’unica nostalgia che prova è pensando agli anni spensierati della sua giovinezza, quando ancora la sua famiglia c’era tutta, ma non certamente del luogo. Non è mai voluto tornare anche se ha avuto occasione di farlo. Non perché avesse paura, essendo stato per lavoro stato in mezzo agli hezbollah libanesi e ai mujaheddin afghani. L’unica ragione per la quale non è voluto ritornare è per perché non cancella né dimentica il male fatto alla “sua” comunità. Racconta un episodio di un suo collega giornalista che andò in Libia. Gli chiese se poteva fare un filmato della casa dove aveva sempre abitato fin dalla nascita, dietro la cattedrale. Mentre il suo collega filmava la casa gli si avvicinò un gruppo di arabi. Subito gli chiesero che cosa facesse là e perché riprendesse quelle immagini. L’uomo rispose tranquillamente che molti anni prima un suo collega abitava lì e avrebbe avuto piacere a rivedere la casa. I libici gli dissero che quella era sempre stata casa loro e che prima non era mai stata abitata da nessun altro. La mentalità di quelle persone – peraltro parecchio diffusa nel paese – e perfino la negazione della presenza ebraica, come anche la decadenza e la trascuratezza in cui è stato fatto precipitare il paese, lo ha fatto disamorare completamente della Libia. Negare l’evidenza della presenza ebraica è del tutto inaccettabile. Come è possibile avere nostalgia di quei posti dopo i tanti torti e le ingiustizie subite?
La sua famiglia vive da allora in Italia, dove si sente di casa. È la realtà che meglio conosce, visto che ci è arrivato da piccolo e ha sempre vissuto qui. Qui ha la sua vita, e svolge un lavoro che lo appassiona: fare il giornalista gli ha dato molte soddisfazioni. Certamente è stato contento ogni volta che ha avuto l’opportunità di andare in Israele per lavoro. Ha scelto lui stesso di scendere in campo come corrispondente per Israele, dopo 19 anni come vicedirettore del Tg1. Dopo una vita professionale occupata quasi interamente a coordinare, guidare, dirigere il lavoro degli altri, ha avvertito la necessità di chiudere il suo percorso tornando al racconto in prima persona dei fatti che accadevano e a cui aveva dedicato i suoi studi e i suoi interessi .E voleva farlo avendo sempre presenti anche quegli insegnamenti che l’etica ebraica gli aveva scolpito: il rispetto e la comprensione degli altri; dei più deboli, la volontà di non giudicare mai senza immedesimarsi a fondo nelle singole situazioni, la necessità di rappresentare con onestà intellettuale le posizioni di tutti anche quando non si condividono, il rifiuto di diffondere o assecondare maldicenze (“lashon hara”).
Il giornalismo è sempre stato la sua grande passione fin da bambino. Ricorda ancora quando per andare a scuola passava in una via di Tripoli e si fermava incantato a guardare attraverso dei finestroni le rotative che in un seminterrato sfornavano a centinaia le copie di un quotidiano locale. Era forse già il primo segno di un interesse poi coltivato e cresciuto negli anni. La sua formazione laica con una solida base ebraica, la conoscenza del mondo arabo e anche di quello cristiano per aver seguito per più di 10 anni i viaggi e gli eventi legati al Papa, lo hanno molto aiutato nella comprensione di quel mondo mediorientale che poi ha raccontato nelle sue corrispondenze. Purtroppo può capitare che davanti a certi avvenimenti qualcuno cerchi di tirarti dalla sua parte. Ma lui, racconta, ha sempre cercato di tenere fermi i propri principi rispondendo alla propria coscienza e a quello che per lui è stato una sorta di “giuramento di Ippocrate” imposto dalla sua professione: quello di raccontare per quanto ne sia capace tutta la verità, anche se scomoda.
La società in Israele ha molte facce ed è estremamente complessa e non semplice da raccontare ed è questa forse l’essenza della sua straordinaria unicità. Cita il grande scrittore Amos Oz: ci sono i religiosi e laici, c’è la Mitteleuropa e c’è anche la modernità, ci sono gli osservanti e ci sono i libertini. E c’è soprattutto un conflitto irrisolto con i palestinesi che si trascina da prima della nascita dello Stato. E poi il richiamo che questi luoghi esercitano per tutte le religioni abramitiche e la necessità di garantire a tutti la possibilità di viverli e accedere ai siti sacri per le loro preghiere. Tutto questo, afferma, è possibile solo in un grande disegno di tolleranza e comprensione reciproca. In questa complessità non mancano le dispute prevalentemente teoriche, ma anche politiche e di parte, tra sefarditi e ashkenaziti, e su questo punto Raffaele respinge un certo mainstream che vuole una “supremazia intellettuale” degli ebrei provenienti dall’Est europeo, pur riconoscendo il ruolo determinante nella formazione dello Stato e poi negli accordi di pace.
I sefarditi – dice non nascondendo una una punta di orgoglio – non sono da meno, tra loro ci sono stati intellettuali e rabbini di grandissimo valore: e forse con una maggiore consapevolezza delle proprie capacità dovrebbero legittimamente aspirare ad avere un maggiore spazio nella vita politica del paese e anche nel difficile percorso della pace, conoscendo meglio di altri la mentalità, la storia e i comportamenti degli arabi. Per quanto riguarda la questione libica, bisogna continuare a lottare per conservare la memoria di una storia millenaria e per far conoscere al mondo intero le ingiustizie subite, le violenze, le uccisioni, la cacciata dal paese, mentre considera una causa persa il tentativo di recupero dei beni perduti con la confisca.
Questo non significa di certo amnistiare o condonare tali rivendicazioni, ma neanche riversare tante energie su aspettative che considera ancora irrealizzabili. È molto importante che vengano preservati i pochi luoghi sacri ancora in piedi. Non si può assolutamente consentire che sopra i cimiteri si costruiscano autostrade e palazzi. Bisogna trovare il modo di conservarli, aggiunge, con la speranza che restino in memoria della fondamentale presenza degli ebrei in Libia. In questo senso se cambiasse la situazione politica, e se si instaurasse un governo democratico, sarebbe una ottima cosa far erigere un monumento in memoria delle vittime dei pogrom del 1945/48/67 e della Shoah. L’importante è che poi non diventi l’occasione di nuovi vandalismi e di vituperio da parte degli arabi o che possa essere poi lasciato al degrado e all’abbandono.
Alla domanda di cosa la cultura tripolina potrebbe insegnare alle altre culture, ritiene opportuno sottolineare l’inclusione, il rispetto, l’ospitalità e la generosità, oltre alla vivacissima qualità intellettuale e alla capacità imprenditoriale. La forza di non piangersi mai addosso e di rimboccarsi le maniche. La capacità di integrarsi mantenendo salda la propria origine, identità e radice ebraica.
Ai propri nipoti e alle future generazioni vorrebbe trasmettere l’importanza della conoscenza della storia ebraica. La saggezza di mantenerla viva nell’osservanza delle tradizioni. La memoria delle proprie origini, dice, non deve mai finire in un cassetto che un giorno nessuno avrà voglia di aprire.

Clicca qui per rivedere l’intervista

(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano