Guerra e informazione

Da varie settimane ormai sui nostri schermi e sulle pagine dei nostri giornali si dibatte (anzi si polemizza accesamente, come sempre accade da noi quando le opinioni sono contrapposte) sulla direzione, le intenzioni, gli spazi con cui i media seguono la guerra in Ucraina. Lo straordinario impegno operativo e l’elevata qualità complessiva della rappresentazione che il nostro sistema informativo riesce a fornire del conflitto sono fuori discussione: la situazione militare, sociale, politica ed economica viene illustrata con grande precisione da giornalisti onnipresenti, che mettono a repentaglio la propria sicurezza per documentare quanto avviene e ci trasmettono un’eco drammatica dei combattimenti e dei loro effetti; le conseguenze dello scontro sul piano mondiale ed europeo, i suoi riflessi sulla realtà italiana sono anch’essi opportunamente analizzati. Ma l’informazione non vive di pura cronaca, per quanto di altissimo livello professionale. Da che mondo è mondo il sale del giornalismo è lo scoop, cioè la notizia/il personaggio/la valutazione capaci di scompaginare le immagini correnti e diffuse. Certo il piano dell’approfondimento, del dibattito, della riflessione, della valutazione politica e non solo sono fondamentali. Anche su questo, i media italiani non si risparmiano. Dalla fine di febbraio le pagine dei quotidiani dedicano ampio spazio al confronto delle idee sul tema e sui suoi risvolti, e soprattutto i tanti talk-show televisivi gareggiano tra loro (la sfida per il livello di ascolti è oggi aspetto primario dell’informazione televisiva) nel proporre argomenti di discussione sulla guerra e personaggi di richiamo – politici, economisti, giornalisti, filosofi o comunque intellettuali, chissà perché quasi mai storici – pronti a valutarli, a fornire la loro interpretazione, a schierarsi polemicamente contro gli interlocutori o contro obiettivi più ampi (gli USA, la Nato, l’Unione Europea, il governo italiano, eccetera). A ben vedere i personaggi in questione sono un po’ sempre gli stessi, una raffinata compagnia di giro che mescolandosi variamente passa sera dopo sera da uno studio all’altro dei diversi network selezionabili sul nostro telecomando. Al di là di una inevitabile ripetitività, bisogna però ammettere che il clima di questi dibattiti è coinvolgente, che i problemi affrontati sono spesso significativi, che lasciarsi trascinare da confronti teorici evidentemente privi di conseguenze pratiche ha comunque una funzione di stimolo formativo. Il problema a mio giudizio nasce quando, sulla base di un sano e talvolta un po’ caotico scambio di idee, si va alla ricerca – appunto – dello scoop a tutti i costi. È certo lecito e anzi importante lasciare aperto lo spazio a ogni punto di vista, anche il più discutibile. Il buon giornalismo non può chiudere la porta al libero scambio di opinioni; il libero dibattito tra posizioni differenti è anzi la base di ogni informazione democratica. Purché si tratti di contenuti razionali suffragati da fatti e argomentazioni. Purché questa basilare libertà di espressione del proprio pensiero non nasconda e non neghi eventi (talvolta atrocità) che sono palesemente documentati. Il confine tra diritto di opinione e azione di propaganda talvolta è molto labile e non facilmente identificabile. Bisognerebbe però sempre cercare di individuarlo e di tenerlo presente. Non mi pare che nei nostri talk show questo sia sempre avvenuto. Invitare in studio sedicenti studiosi filoputiniani o la portavoce ufficiale del ministero degli esteri russo per offrire loro il palcoscenico atto a dare un’immagine positiva della guerra di aggressione in corso non può né modificare il dato di fatto (la guerra all’Ucraina è e resta un’aggressione), né trasformare gli ideatori-conduttori dei programmi televisivi in altrettanti paladini della libertà di informazione, quando invece essi sono molto più prosaicamente dei professionisti del giornalismo alla ricerca dello scoop più scoop con cui oltrepassare lo share del programma avverso ed eguale.
Il mondo è bello perché è vario. Da due settimane sono in Israele, in uno dei miei ormai periodici soggiorni a Ramat Gan. Rispetto alla guerra in Ucraina, che continuerà tragicamente per chissà quanti altri mesi ancora, mi porto dietro l’immagine e l’esperienza dei media italiani: un’informazione continua e articolata, coinvolgente e talvolta forse strumentale, talvolta persino eccessiva. Comunque indispensabile. Qui, improvvisamente, mi trovo di fronte all’opposto. Non padroneggio l’ebraico e il mio accesso ai programmi tv e ai giornali del posto è molto limitato, d’accordo. Ma non ci vuole molto ad accorgersi che di guerra in Ucraina non si parla quasi. Il telegiornale più seguito, quello della rete Kan, dedica servizi molto lunghi e puntuali alla politica e alla cronaca locali; ma del conflitto russo-ucraino non c’è traccia. A mala pena trovi notizie d’agenzia sul sito del Jerusalem Post o su quello di Haaretz. Su ynetnews (Yedioth Ahronoth) un lungo servizio si sofferma sui tanti russi che da marzo cercano di trasferire se stessi, le loro start-up e congrui finanziamenti in Israele, certo un lido più sicuro ed economicamente più promettente della Russia attuale. Ma non ci sono approfondimenti sulla situazione ucraina in sé. Certo, la differenza di prospettive va valutata. Vivere qui in Israele, fuori dal contesto europeo, non è come essere immersi nel Vecchio Continente e nell’Unione Europea sentendo quel conflitto come una ferita aperta e sanguinante: e non è solo una questione di minore distanza fisica. Inoltre, la componente originariamente russa della popolazione è in Israele molto elevata; peraltro neppure quella d’origine ucraina è indifferente: anche questo contribuisce forse a mettere una sorta di silenziatore sulla guerra tra fratelli russi e ucraini? Chissà. E poi c’è la delicata posizione politica di Israele, grande alleato degli Stati Uniti ma collegato anche alla Russia da un difficile equilibrio geopolitico che non va alterato. Tutto comprensibile, se solo ci pensiamo un momento.
Restano comunque i dubbi, e nel fondo una certa perplessità di fronte a un silenzio così marcato.
David Sorani

(14 giugno 2022)