Abraham B. Yehoshua (1936-2022)
Colori e luce di un grande scrittore
Lo incontrai di persona la prima volta all’istituto Van Leer di Gerusalemme. Erano i primi anni Novanta e non avevo ancora letto i suoi libri. I suoi occhi penetravano con passione e i ricci ancora scuri si agitavano con i movimenti della testa. Puntava il dito verso un pubblico di accademici e intellettuali. Non parlava di letteratura ma di politica. Lo preoccupava l’occupazione dei territori palestinesi. “Cosa diventeremo?”, diceva. “Come possiamo noi ebrei occupare altri popoli?”. Il mio ebraico era già sufficientemente buono per capire le sue frasi, scandite con tale chiarezza e convinzione. Una pronuncia tonda, potente, nonostante la lingua scontrasse i denti quando pronunciava le due “t” dell’alfabeto ebraico, regalando una veloce e buffa zeppola. Gli occhi incrociavano spesso quelli di una donna seduta in seconda fila. Lei sorrideva, ricambiava, approvava. Presto avrei conosciuto anche Ika, psicologa, docente, madre dei suoi figli, compagna della sua vita. Si erano conosciuti e amati, condividendo l’amore per i figli e per il proprio paese, per la Francia e poi per l’Italia, per gli amici, per la musica, per il teatro e infine per i nipoti.
La loro casa sul Monte Carmelo era piena di colori e di luce. Ika sembrava sempre di buon umore, ma si capiva che ogni cosa fosse soggetta al suo giudizio. Bulli, come lo chiamavano gli amici, insegnava letteratura all’Università di Haifa. Mi parlava dei suoi studenti, di come a volte le loro domande lo intrigassero. Ika sapeva già tutto. Lui l’aveva messa al corrente, si era confidato, avevano già discusso con lei qualsiasi particolare.
Un giorno di maggio con un tempo splendente feci vedere loro Roma dal tetto del Vittoriano. Sembravano due fidanzati in vacanza. Lui puntava il dito, questa volta non per accusare ma per chiedere cosa fosse quella chiesa, e quel palazzo, e quella rovina. Una curiosità instancabile, insaziabile. Entrambi erano sempre pieni di domande su ogni cosa nuova che vedevano, sui costumi delle persone, sulle abitudini che non conoscevano, sulle storie personali e famigliari, su come ciascuno di noi reagiva alla vita, dalle cose piccole a quelle molto più grandi. Per loro casa era però sempre Israele, con le sue contraddizioni e i suoi problemi. Era comunque il centro della vita, il tronco del loro albero, la postazione speciale dalla quale osservavano e commentavano il mondo. Era la loro prospettiva, da spiegare, difendere e anche mettere in discussione, qualora la loro coscienza sentisse il bisogno di sollevarsi e parlarne.
Una sera li invitammo a cena a Tel Aviv, ed era un pasto di Shabbat. Mio marito recitò le benedizioni del giorno festivo. Cantammo alcuni inni al Sabato. In casa c’era un’atmosfera di grande serenità. Bulli ed Ika si dissero impressionati e cominciarono a inondarci di domande. Cosa ci aveva portati a rispettare in modo così pieno quel giorno? Bulli continuò per anni a fare certe domande.
Chiedeva anche: secondo te perché gli italiani amano leggere i miei libri? Perché parli di valori comuni, rispondevo. Perché descrivi un ambiente molto noto: la famiglia. E lo fai da dentro, scavando, sviscerando, raccontando cosa succede a ciascuno in momenti chiave della vita: innamoramento, tradimento, divorzio, mentire, rapporto con i figli, quello con la morte. Era affascinato dai suoi lettori italiani, dalla sua popolarità, perfino sotto l’ombrellone. “Non scrivo per loro, ma arrivo a loro”. Questo è il grande scrittore, gli ripetevo. Ma lui non amava le categorie. “Faccio quello che so fare, raccontare la vita che conosco”.
Le nostre conversazioni si allargavano a quasi tutto, un po’ svolazzanti: dai suoi libri alla vita quotidiana, alla scienza. Per mesi si occupò di capire come avrebbe funzionato l’auto elettrica che gli aveva consigliato il figlio. Per altrettanti mesi raccontò com’era bello viaggiare sapendo di fare meno danni all’ambiente.
Durante un’altra delle tante visite italiane salimmo al Gianicolo. Era al tramonto. Ika mi chiese se potevo fotografarli insieme. Sembravano una coppia di giovani innamorati. Anche se Ika mi fece capire che le avevano scoperto un tumore, mostrandomi che la nuova pettinatura, con capelli lunghi che non le avevo mai visto, raccolti in una coda, era una parrucca, seppure assai ben fatta.
In Italia ci tornò senza Ika. “Non sono lo stesso”, mi sibilò quando lo accolsi a Ferrara. “Avrei voluto andarmene con lei, ma non è stato possibile”. La sua curiosità si era un po’ spenta. Qualcosa di lui era andato con lei. Voleva visitare Ferrara, ma non aveva più tante domande sulla vita. Lo guidai nel Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, appena costruito. Rimase impressionato dalla resilienza degli ebrei italiani, dalla loro capacità di mantenere una identità ebraica, attraverso così tanti secoli. Tenemmo una conversazione pubblica, presso il teatro Comunale, su “Il libro ebraico”. L’argomento lo appassionava, i suoi occhi scuri si riaccendevano mentre parlava di come usasse la lingua ebraica, la sua lingua. Una lingua antica e nuova, ci spiegava. Una lingua sintetica che ama le ripetizioni, ci ricordava. Una lingua che lui amava e che modellava magistralmente, da grandissimo artista, come lo scultore che riesce a piegare anche il marmo, come quei pochi che lasciano una impronta sull’anima del mondo.
Ci siamo ritrovati a Gerusalemme, e parlava della sua malattia e della morte, come un testamento vivente. Mi ha accolta felice di rivedermi in Israele. Mi ha salutata con uno sguardo pieno di affetto. Non vedeva l’ora di raggiungere Ika.
Simonetta Della Seta
(Foto: Marco Caselli Nirmal)
(15 giugno 2022)