La luce di Salomone

Nel decimo Canto del Paradiso Dante racconta di come, entrato nel cielo di Giove, insieme a Beatrice, si veda circondato da dodici spiriti beati che, splendendo come stelle scintillanti, danzano e cantano intorno al visitatore e alla sua guida, creando intorno a loro una corona luminosa, simile all’aureola che circonda la luna. Il canto che da loro proviene è talmente sublime che non lo può neanche immaginare chi non abbia potuto valicare le porte dei cieli. Dopo avere girato per tre volte intorno ai due ospiti, le anime si arrestano, e una di loro comincia a parlare al poeta. È lo spirito di Tommaso d’Aquino, il doctor angelicus verso cui, com’è noto, Dante ebbe una devozione del tutto speciale, e alla cui dottrina molto attinse per la costruzione della struttura del poema.
Il domenicano inizia il suo discorso spiegando chi sono i dodici spiriti che compongono questa “ghirlanda” (92) dorata. Si tratta di dodici persone distintesi, oltre che per virtù e santità, per il dono della sapienza. Undici di queste sono esponenti, di diversa provenienza e fama, della teologia cattolica: oltre allo stesso Tommaso, abbiamo il vescovo Alberto di Colonia, i monaci Francesco Graziano e Pietro Lombardo, l’autore del “De coelesti Hierachia” (che nel Medio Evo si riteneva essere Dionigi Aeropagita), lo storico Paolo Orosio, il senatore filosofo Severino Boezio, il teologo Isidoro di Siviglia, l’erudito inglese Beda, detto il Venerabile, il mistico scozzese Riccardo di San Vittore e il maestro aristotelico Sigieri di Brabante.
Undici spiriti, che con la loro sapienza, hanno contribuito, secondo la visione dantesca, a costruire la grandezza di quella Chiesa che sarebbe stata invece così gravemente insidiata dalla corruzione degli ecclesiastici del suo tempo, a partire dall’odiato papa Bonifacio VIII.
Ma la corona, abbiamo detto, è fatta da dodici spiriti. C’è, infatti, anche una “quinta luce”, che non appartiene alla storia della Chiesa, ma, secondo il giudizio dello stesso domenicano, è di tutte la “più bella” (109). E questo superlativo non è un qualcosa di comune nel linguaggio dantesco, in quanto il poeta in genere non pone gerarchie nella santità. Tutte le anime giuste (come abbiano visto e sottolineato, anche di non cristiani) sono ugualmente da ammirare e venerare. Devono essere stati davvero eccezionali i meriti di questa stella lucentissima, il cui splendore riesce a superare persino quello di Tommaso d’Aquino.
Si tratta di re Salomone, a cui Dante riserva due terzine dense di commossa ammirazione, caratterizzate da una straordinaria capacità di sintesi: “La quinta luce, ch’è tra noi più bella,/ spira di tale amor, che tutto ‘l mondo/ là giù ne gola di saper novella:/ entro v’è l’alta mente u’ sì profondo/ saver fu messo, che, se ‘l vero è vero,/ a veder tanto non surse il secondo” (109-114).
Il nome del grande re non viene pronunciato esplicitamente, quasi in forma di riverenza e rispetto. Non è un nome qualsiasi. Nel richiamo all’“amore” che emana dalla luce si è voluto vedere un richiamo al Cantico dei Cantici, l’incantevole poema amoroso scritto dal re poeta. Ma io ritengo che la parola indichi invece l’amore per il sapere, che distinse il sovrano, di cui è qui esaltata la sapienza, non l’arte poetica. Così come mi pare errato interpretare la frase “tutto ‘l mondo là giù ne gola di saper novella” nel senso della curiosità riguardo al destino ultraterreno di Salomone, di cui alcuni si chiedevano se fosse stato dannato, in ragione del vizio di lussuria che lo avrebbe colpito in vecchiaia. Dante non nutre evidentemente alcun dubbio su quale sia il posto di Salomone nell’aldilà, e non sarebbe proprio stato il caso di offuscare la devota lode al re con l’ombra di bassi sospetti terreni. Tutti vogliono sapere i segreti della somma sapienza di Salomone, e dell’amore ad essa sotteso, il senso è questo.
Nella mente del re ci fu un sapere tanto profondo, che mai nascerà un uomo altrettanto sapiente. Un’espressione che riproduce alla lettera il testo del primo libro dei Re: “”ti ho dato un cuore saggio e intelligente, così che nessuno prima di te sarà stato simile a te, né dopo di te sorgerà persona che ti uguagli” (3.12).
Attenzione. Salomone non nacque dotato di un’intelligenza superiore, non fu un “bambino prodigio”. La sua sapienza fu il frutto di una scelta, in quanto, all’offerta del Signore, che si disse disposto a donargli ciò ch’egli avesse desiderato, rispose di volere in dono la sapienza necessaria “a discernere il bene dal male”, in modo da potere così correttamente giudicare il suo popolo (I Re, 3. 9). Avrebbe potuto chiedere potere, ricchezza, amore terreno. Chiese invece la sapienza, ma non come qualcosa di fine a se stesso, bensì solo come strumento per conoscere e realizzare il bene comune.
Come stupirsi che sia “la luce più bella”?

Francesco Lucrezi

(15 giugno 2022)