Due ebrei, tre opinioni,
un rabbino

Otto anni è la durata massima del mandato di un Presidente degli Stati Uniti, il tempo massimo che ha a disposizione per fare la Storia; dunque non dovremmo considerarlo un periodo breve. Questa, però, è una magra consolazione per chi, come gli ebrei torinesi, perde dopo otto anni il suo rabbino capo, Rav Ariel Di Porto, che si accinge a tornare a Roma, sua città natale.
Numerose le manifestazioni di affetto che in questi ultimi giorni di permanenza sono giunte da ogni parte a lui e a sua moglie Elisabetta, attiva tra l’altro nel gruppo di studio delle donne. Manifestazioni non scontate in una Comunità come Torino, ha ironizzato lui (ammettendo però di essere commosso): a quanto pare nel 2014 non gli era stata fornita un’immagine lusinghiera di noi ebrei torinesi, anzi – racconta – qualcuno gli aveva predetto che non avrebbe resistito più di uno o due anni. Non spetta a me dire se i giudizi su di noi siano più o meno veritieri, ma se non altro le previsioni sul tempo di permanenza di Rav Di Porto a Torino sono state smentite.
In effetti nel 2014 la nostra Comunità era particolarmente litigiosa, e un rabbino simpatico agli uni rischiava di diventare automaticamente sospetto agli altri. Rav Di Porto è riuscito a scardinare questo meccanismo perverso (anzi, in alcune occasioni ha fatto pure da mediatore tra i litiganti), tant’è che il dispiacere per la sua partenza è trasversale, ed è stato espresso da persone più o meno osservanti, più o meno lontane, più o meno attive all’interno della Comunità, tra cui i molti che hanno sperimentato la sua vicinanza e il suo sostegno in momenti difficili.
Rav Di Porto è stato sempre pronto a intervenire in tutti i contesti in cui era richiesta la sua presenza, un suo discorso, un suo scritto, sempre disponibile per chi aveva bisogno di informazioni, aiuto, consiglio, pronto ad assumere su di sé anche incombenze che a rigor di logica non dovrebbero spettare a un Rabbino Capo. Disponibile, tra l’altro, in questi ultimi due anni di pandemia, a ufficiare nel momento più solenne dell’anno, alla fine di Kippur, sotto una tenda per non far sentire sminuite le persone che non potevano entrare nel bet hakeneset. (Tra parentesi, personalmente considero tra i suoi meriti anche l’aver preso sul serio fin dall’inizio le misure di sicurezza e le regole sul distanziamento). Fa piacere ricordare anche momenti più leggeri, per esempio la partecipazione di Elisabetta e Ariel Di Porto alcuni anni fa a uno spettacolo di Purim in cui avevano recitato un divertente battibecco tra coniugi in giudaico-romanesco.
Tante volte in questi otto anni, nel cuore di discussioni o polemiche sull’identità ebraica, ho provato un senso di conforto pensando: “sono iscritta alla Comunità di Torino, ho il mio rabbino, non ho bisogno di definirmi o etichettarmi ulteriormente”. In effetti il fatto che il medesimo Rabbino Capo possa essere stimato e considerato un punto di riferimento da ebrei diversi tra loro per idee, interessi e livello di osservanza mi pare una buona conferma della validità del sistema italiano delle Comunità territoriali e del pluralismo nell’unità: due ebrei con tre opinioni non hanno necessariamente bisogno di rivolgersi a quattro rabbini.

Anna Segre