Il legionario
Le guerre contemporanee hanno tradizionalmente fatto da serbatoio per quelle spinte regressive che poi, dopo la conclusione degli stessi eventi bellici, in qualche modo hanno continuato ad inquinare i tentativi di ripresa di un’esistenza non solo pacifica ma ispirata a condotte civili. La Prima guerra mondiale, dopo avere incentivato e quindi innescato le Rivoluzioni russe del 1917 (che furono due, fatto dai più oramai dimenticato), trasmutò, a scontri tra eserciti opposti a quel punto esauritisi, in una lunga guerra civile destinata a durare, nei territori dell’Europa dell’Est, fino al 1921. Peraltro questo evento fu matrice dell’azione di quei corpi franchi, moderni lanzichenecchi della destra eversiva, che costituirono un po’ il modello universale sul quale tarare la militanza armata e offensiva di radice antidemocratica. Il mito moderno del «legionario» – ossia quello di una figura paramilitare (poiché estranea e quindi esterna alle forze armate legali dello Stato), organizzata in un corpo a sé stante (una sorta di falange), la cui missione è sì di combattere ma all’interno di uno specifico disegno politico, di cui ne diventa in qualche modo espressione ultimativa – prende sostanza proprio sui campi di battaglia della Grande guerra. Non che prima fosse del tutto estranea all’orizzonte di individui e società ma l’idea di un «soldato politico», che in qualche modo “nobiliti” le guerre di aggressione attraverso il ricorso alle categorie ideologiche di cui si affermava costituisse la diretta espressione, è strettamente interconnessa al modo in cui la guerra stessa è divenuta, dall’Ottocento in poi, anche un fatto civile e sociale. Ovvero, al coinvolgimento, per più aspetti diretto, di chi non combatteva in trincea ma era comunque chiamato, in vari modi, a sostenere lo sforzo bellico. La separazione tra civile e militare, infatti, si è andata di molto attenuando, coinvolgendo violentemente la prima sfera nella seconda, se non di fatto quasi inglobandola. La guerra nazifascista contro le popolazioni civili ne è stato il suggello. Così come, per fare un passo indietro, l’intromissione dell’élite militare nell’azione politica tedesca, un’invasione di campo esercitata da parte dello Stato maggiore guglielmino durante la Prima guerra mondiale. Sono questi, insieme all’accelerata industrializzazione dei processi bellici, tra gli elementi che fanno da cornice all’uso sistematico della violenza istituzionale nelle società contemporanee. Così come, in una sorta di effetto in controluce, lo sviluppo, dopo le antiche compagnie di ventura e il mercenariato, della figura del militante politico che non solo si arma ma si militarizza nel corpo come nello spirito, intendendo la politica medesima come azione di forza, imposizione della propria volontà, superamento di qualsiasi esercizio pluralistico e consensuale attraverso l’autoaffermazione prevaricatoria della propria fazione. È questo, non a caso, il terreno di coltura, in società che vanno massificandosi, dei movimenti eversivi, che trovano la loro ragione d’essere nel rifiuto aprioristico dei sistemi di mediazione che, passo dopo passo, vanno invece costituendo il tessuto delle democrazie prima liberali e poi sociali. La militarizzazione della politica è presente da subito in chi non vuole riconoscere legittimità alle istituzioni di rappresentanza, denunciandole come abusive e quindi false. Più in generale, a destra come a sinistra, una discriminante netta tra riformismo e sovversivismo diventa l’accettazione o il diniego del diritto al monopolio da parte dello Stato nel ricorso alla forza, laddove essa occorra. L’azione politica, in questo caso, si concentra sulla sottrazione di legittimità che viene esercitata a danno delle istituzioni pubbliche, rivendicandone per sé, per il proprio gruppo, la propria ideologia, l’unico autentico fondamento dell’uso della violenza. Non è quindi un caso se il conflitto russo-ucraino si candidi ora ad essere il serbatoio di rilegittimazione delle spinte eversive di una destra radicale non solo militante ma, soprattutto, militarizzata. A livello continentale. Si può più agevolmente comprendere un tale dato di fatto se si pensa – adottando una sorta di doppio binario nell’interpretazione – che quasi tutti i conflitti armati dei decenni trascorsi hanno da un lato bersagliato moltissimo le popolazioni civili, favorendo dall’altro la formazione e lo sviluppo, intorno a forze armate nazionali contrapposte in schieramenti tradizionali, di nuclei di miliziani fortemente motivati sul piano politico. La trasformazione di guerre tra eserciti in guerre civili, o la sovrapposizione, la contaminazione e la commistione tra questi due distinti livelli, è ciò che ha mutato confronti armati altrimenti circoscritti, nel tempo così come nei luoghi, in lunghissimi, defatiganti, dissanguanti contrasti senza altro obiettivo che non sia la loro stessa ripetizione all’infinito. La vicenda ucraina si sta progressivamente candidando ad un tale esito, alimentando un focolaio permanente di inaudita instabilità nei riguardi della stessa Unione Europea. E se le cose dovessero disporsi per davvero in questi termini, non può allora sorprendere che la destra radicale di tutta Europa, antidemocratica, illiberale ed eversiva, ne possa trarre giovamento in termini di rigenerazione dei suoi abituali motivi ideologici, soprattutto di quelli basati sulla mobilitazione, sulla violenza destabilizzante, sulla fidelizzazione di individui alla ricerca di un qualche ingaggio, ossia di una partitura nella quale riconoscersi e recitare un ruolo. Già tutto questo è avvenuto, e continua a ripetersi, con i movimenti del radicalismo islamista. Non a caso per nulla estranei agli scenari geopolitici che vanno configurandosi anche in quella parte del meta-continente euroasiatico.
Claudio Vercelli
(19 giugno 2022)