Il riconoscimento a Renata Segre
Preludio al Ghetto, il vuoto colmato

Una storia documentata della presenza ebraica a Venezia e nella Serenissima prima dell’istituzione del Ghetto mancava ancora. Almeno fin quando all’inizio di quest’anno è uscito “Preludio al Ghetto di Venezia. Gli ebrei sotto i dogi (1250-1516)”, poderoso testo che è il frutto di molti anni di lavoro e ricerca negli archivi da parte di Renata Segre.
Pubblicata dalle Edizioni Ca’ Foscari, l’opera traccia l’intero arco che va dalle prime presenze attestate di ebrei al loro definitivo insediamento (e isolamento) nell’area urbana denominata Ghetto. “Mio marito mi diceva che sarebbe stato impossibile scrivere una storia degli ebrei veneziani prima del ghetto perché sarebbero serviti venti anni di lavoro. È morto ventidue anni fa e io ce ne ho messi diciotto”, ha dichiarato l’autrice contestualmente all’uscita di un’opera che vuole essere anche un omaggio alla memoria di Marino Berengo, suo compagno di vita e tra i più importanti storici italiani del Dopoguerra.
A riconoscere la qualità di questo lavoro un prestigioso riconoscimento conferito nelle scorse ore a Segre nella sede dell’Accademia dei Lincei: il Premio della Fondazione Federico Chabod per un’opera storica avente per oggetto la storia medievale, moderna o contemporanea. “La narrazione, lucidissima e stringente, è accompagnata in controcanto da una serie fittissima di note a piè di pagina: una soluzione espositiva resa inevitabile dalla ricchezza straordinaria dello scavo archivistico condotto in maniera sistematica dall’autrice”, attesta la giuria del premio. Da ognuna di queste note, si legge, “emergono nomi, figure, eventi poco noti o addirittura sconosciuti, che offriranno la possibilità di ricerche comparate finora impensabili”. Una ricerca “di livello eccezionale, presentata con esemplare lucidità”.

Preludio al Ghetto

Viene talvolta da chiedersi se il mito di Venezia non abbia contagiato, e plasmato interi capitoli della sua storia. Senza dubbio, la realtà ebraica nella prima metà del secondo millennio è uno di questi versanti, tra i maggiori, forse, in cui si è manifestata la resistenza a rapportarsi/dialogare con gli strumenti documentari, al fine di rompere un tabù, alimentato dalla tradizione e dall’immaginario collettivo.
Per secoli si è dato per acquisito, e la storiografia ha stancamente ripetuto, che fin oltre il Quattrocento e l’istituzione del Ghetto (1516) la presenza ebraica a Venezia sia stata soltanto rapsodica, senza che mai vi s’impiantasse un solido nucleo strutturato; e ciò, in fervido ossequio alla tradizione avita e a devota tutela della fede cattolica, di cui la Repubblica si ergeva a paladina: «Antiqui nostri numquam eos voluerunt videre in Venetiis»; «Antiqui progenitores nostri, christiane religionis cultores». Questa narrativa ha contaminato un po’ tutti, non ultima la stessa parte ebraica, trovando argomenti in un presunto/apparente vuoto nelle fonti. Infatti, scartato ogni possibile nesso tra la Giudecca, già detta Spinalunga, e l’insediamento in quell’isola di una comunità giudaica altomedievale, la tesi opposta poggiava unicamente su vaghi/rari cenni nella letteratura dei responsa rabbinici, fragili indizi di una realtà negata.
Non restava che compiere una verifica in loco, compulsando nell’Archivio di Stato di Venezia – i cosiddetti Frari – una miriade di carte, frutto della consuetudine cancelleresca e dell’acribia archivistica tramandata per oltre un millennio da uno Stato orgoglioso della propria storia. A questa impresa mi sono dedicata per tre lustri, sfatando la diceria sulla sua fattibilità: operazione improba, certo, ma meritevole di essere tentata, purché vi concorressero il diuturno sostegno e la generosa disponibilità dello staff di quella benemerita istituzione culturale. Così è stato, con mia profonda gratitudine; e, posso sperare, compiacimento generale dei suoi funzionari e del personale tutto. In effetti, su un arco di oltre due secoli e mezzo, fino all’età del primo ghetto creato nella capitale, siamo ora in grado di dipanare la vicenda ebraica nella cornice storica della Serenissima, a livello di Dominante e di dominio, nonostante qualche inevitabile parentesi e vuoto documentario (e la consapevolezza che l’indagine non è certo esaurita).
D’altronde, fra Due e Trecento, per almeno mezzo secolo, a Venezia dimorarono e operarono dei medici ebrei, ma la loro identità fu sottaciuta, quasi del tutto oscurata, al fine di non disvelare questo sotterfugio. Aggiungiamo che in quell’epoca non si produsse alcuna sovrapposizione, né coincidenza temporale, tra la pratica professionale e l’esercizio del prestito feneratizio, due figure classiche della storia ebraica medievale. Certo, la politica, tesa a rendere irriconoscibile la fede religiosa dei singoli ebrei per non smentire l’assioma che mai li si era accettati in città, è servita ad alimentare la leggenda, ma ha pure intralciato in misura rilevante la ricerca in questo particolare ambito.
Poi, negli anni centrali del XIV secolo, quasi a sottolineare lo scollamento tra l’età dei medici e quella dei banchieri, la documentazione archivistica resta silente, come se il patriziato si fosse ritratto, invocando il ritorno a tempi passati, dai quali colpevolmente si era allontanato, e cui doveva riallacciarsi, anche a costo di qualche momentaneo sacrificio. Invece, nell’ultimo ventennio del Trecento, il prestito ebraico prendeva il sopravvento, dispiegando la sua funzione calmieratrice sul mercato della finanza minore; e traslocando da Venezia a Mestre, ‘castello’ strategico, alle propaggini della laguna, motiverà, caratterizzerà l’ebraismo fino ad Agnadello, durante quasi un secolo e mezzo.
I titolari di quei banchi mestrini, gli «zudei» per antonomasia, con una clientela prevalentemente veneziana, rappresentavano l’Università ebraica, la guidavano e ne rispondevano dinnanzi al governo. Nerbo delle comunità di tutta la Terraferma veneta, erano stati subito in grado di associare al loro ruolo politico la funzione insostituibile di capitale culturale e religiosa dell’ebraismo, con tanto di sinagoga e albergo, dove ospitare i correligionari che a Venezia non potevano trattenersi oltre due settimane di fila. I primi testi yiddish giunti fino a noi recano nel colophon date e firme di copisti ashkenaziti, riveriti maestri della Legge, officianti nei servizi religiosi, e precettori: un mondo di cui è oggi difficile persino immaginare ampiezza e vivacità.
Perché, anche questo ritratto dell’ebraismo veneto/veneziano smentisce l’idea tuttora diffusa di una Mestre città minore, sulla falsariga della tradizione che ha cancellato quanto non abbia un immediato riscontro con la visione degli ebrei rinchiusi nel Ghetto di Venezia, descritti in forma di piccola collettività, capace di produrre eccellenze letterarie e scientifiche, e attrarre l’interesse di un vasto pubblico, pur essendo sistemati in un’area dismessa della città. In un simile quadro, d’altronde, si perde di vista la ragione d’essere che giustificava, nella costruzione ideologica dello Stato ducale, la ‘grazia’ concessa a questi infedeli di essere tollerati nelle sue terre. In definitiva, le attività economiche, dal prestito minuto al reimpiego e commercio di seconda mano, vennero spostate tali quali da Mestre nella capitale, risparmiando alla clientela veneziana la fatica di attraversare la laguna per ricorrere a quegli strumenti finanziari che altrove, nella Terraferma, erano offerti con la formula dei monti di pietà. Ne discendeva, non secondario beneficio per il governo patrizio, il vantaggio di evitare l’intromissione dei frati minori in un settore particolarmente sensibile per l’ordine pubblico.
Aggiungiamo che, trattandosi del primo ghetto chiuso istituito in Italia – circoscritto da canali, e controllato giorno e notte da guardiani –, è probabile gli stessi ebrei non sapessero con esattezza a cosa andavano incontro. Abituati a ritenere che tutto si poteva alla fin fine sempre aggiustare; e desiderando ardentemente di vivere a Venezia, acconsentirono a questo insediamento forzato, trasformando in breve una vicenda locale e temporanea in un vero e proprio emblema della capacità di una minoranza ad adeguarsi, e vivere, di necessità, per secoli in un contesto difficile. E a segnare il paesaggio urbano della capitale non fu soltanto il ghetto; già lo contraddistingueva, sin dal 1386, il primo monumento storico dell’ebraismo veneziano, il cimitero di San Nicolò del Lido, tuttora in funzione.
C’è però da considerare anche il risvolto: perché se gli ebrei accettarono di sistemarsi in un’area ristretta, periferica e malsana, pur di mettere solide radici in città, il merito andava ascritto alla classe di governo che, unica forse di tutta la penisola, dopo un’iniziale ritrosia, non vi si oppose mai seriamente. Altrove, l’età dei ghetti iniziò più tardi e fu, per forza di cose, di più breve durata.
Questo discorso non trova immediato riscontro nella Terraferma veneta, dove la politica verso gli ebrei era una variante nei rapporti – generalmente tesi – tra le città suddite e la Dominante. Di conseguenza, quando gli ebrei si affacciavano sul territorio per offrire i propri servizi, non trovavano quel sostegno del potere centrale, che aveva di regola assecondato la loro penetrazione nell’Italia centro- settentrionale. Inoltre, rispetto ad altre signorie, nello Stato veneto, a forte struttura mercantile, con maggiori canali d’accesso al denaro e minori remore d’ordine canonico, l’esercizio del credito a breve, e la reperibilità di piccole somme, divenivano funzioni meno avvertite. D’altronde, se i prestiti su pegno non erano un grande affare, lo erano ancora meno i mutui chirografari (detti di scritta), che avrebbero richiesto un più convinto intervento delle autorità a sostegno dei creditori, per tutelarli contro il rischio di perdere capitale e usura. In più, sul territorio, i feneratori ebrei incontrarono dapprima la forte concorrenza dei cosiddetti ‘toscani’, e dovettero sovente iniziare a operare in un ruolo di sussidiarietà, e di palese svantaggio.

Renata Segre – Preludio al Ghetto di Venezia

(19 giugno 2022)