Yehoshua e l’identità ebraica
Dopo Aharon Appelfeld, dopo Amos Oz, anche Abraham B. Yehoshua ci ha lasciato. La scomparsa di un altro grande scrittore israeliano ci porta a interrogarci sul ruolo e sulla funzione collettiva che questi e altri punti di riferimento della letteratura e della cultura di Israele hanno rispetto al Paese, rispetto agli ebrei nel mondo e alla loro immagine nella società. Ci spinge in particolare a domandarci cosa dava e cosa continuerà a dare Alef Bet Yehoshua alla valutazione della condizione ebraica. Nell’insieme, possiamo dire che la grandezza degli scrittori ebrei (come quella dei pensatori e degli artisti ebrei) si riverbera spontaneamente sull’ebraismo, sugli ebrei, su Israele, sulla Diaspora contribuendo a diffondere l’attenzione e l’interesse verso tutto ciò che ci riguarda; essa agisce insomma come una sorta di passepartout culturale/intellettuale rafforzando la già consistente curiosità che ci circonda, spingendo molti a improvvisarsi analisti di nuove profondità ebraiche. Visti dal nostro angolino interno, i diffusi commenti post mortem che ogni volta leggiamo dopo il commiato di una grande figura legata all’ebraismo assomigliano a un occhiolino di intesa lanciato a comunicare vicinanza, mentre per altri versi permangono tracce evidenti di pregiudizio anti-ebraico e anti-israeliano. Ma andando oltre questo vezzo pseudoculturale per noi un po’ fastidioso, è all’interno di ciascuno dei grandi scrittori israeliani che troviamo inestricabili legami con Israele come popolo/terra, con l’ebraismo, con gli ebrei e la loro condizione: sono aspetti fondanti della loro stessa grandezza di autori, e d’altro lato sono pietre miliari che ci aiutano a orientarci e a comprendere meglio il nostro status di ebrei del ventunesimo secolo.
E quali sono questi vincoli in A. B. Yehoshua? Alla base si profila la convinzione che solo l’israeliano sia un ebreo pienamente realizzato, per quanto ancora in cerca. Mentre, di converso, l’ebreo diasporico si troverebbe in una condizione di non completa attuazione. A noi ebrei europei che ci sentiamo tanto cittadini del mondo (e forse anche agli ebrei americani), questa limitazione – inutile negarlo – va molto stretta; ci pare anzi falsare l’immagine che abbiamo di noi stessi, così legata al nostro ruolo di minoranza “diversa” e spesso controcorrente rispetto agli orientamenti degli altri. D’altra parte, è un fatto che la completezza della dimensione ebraica non possa prescindere dalla centralità di Eretz Israel e dal rapporto con la Terra, aspetti che vivendo altrove inevitabilmente vanno persi. Oppure no? Dalla diaspora potremmo sempre rispondere che il richiamo e l’aspirazione ideale alla Terra, in noi costantemente molto vivi, sono più forti della consuetudine abitudinaria. Ma forse Yehoshua parlando di ebreo israeliano come di ebreo pieno o di “normalità ebraica” faceva riferimento non tanto al legame col territorio quanto proprio alla “israelitudine”, presente solo nei sabras e in chi in Israele comunque vive.
Cardine della narrativa di Yehoshua in cui certo più facilmente riconosciamo il nostro ebraismo è la memoria, elemento coessenziale al nostro essere popolo che procede verso il futuro con lo sguardo fisso al passato. Viaggio alla fine del millennio non è solo un capolavoro di ricostruzione letteraria di due dimensioni del medioevo ebraico (mondo sefardita e mondo askenazita), è anche e soprattutto l’immersione viva in un passato remoto che si fa partecipazione presente e problematica attuale, testimonianza scritta del fatto che il nostro essere ebrei oggi significa anche perpetuare la memoria e vivere in essa. E di memoria vive anche un altro suo caposaldo, Il signor Mani: una memoria tragica, diversa ed uguale, che si trasmette da generazioni nella sua irrinunciabilità. E’ infatti la nostra identità ad emergere attraverso di essa.
Ma anche partendo dalla quotidianità apparentemente più banale l’analisi dello scrittore consumato riesce a far emergere attraverso personaggi di concreto spessore la problematica sociale ed umana che coinvolge, spesso tormenta la realtà israeliana contemporanea (certo non solo quella): mi riferisco a opere come Il responsabile delle risorse umane e il grande romanzo L’amante.
Sovente l’esame attento della contemporaneità israeliana spinge l’autore alla ricerca della solidarietà col mondo arabo palestinese, con il vicino scomodo che è giusto ma non sempre facile conoscere e comprendere: emerge così con forza (penso ad alcune memorabili pagine de La sposa liberata) l’immagine dell’altro, cugino e insieme nemico, che con la sua sola presenza spesso rivela le debolezze e un dissimulato senso di superiorità dell’israeliano comune, pronto però a trasformarsi in malcelato senso di colpa. Fotografando con perizia psicologica un travaglio interno, Yehoshua mette a nudo con coraggio una ferita viva della società israeliana e nello stesso tempo un nervo scoperto di tutto il mondo ebraico contemporaneo.
E’ anche questo essere pungolo alla riflessione interna, questo sapersi trasformare in coscienza della nazione a fare la sua grandezza, a renderlo un riferimento centrale non solo per Israele ma per ogni ebreo; in un modo analogo e complementare a quello che porta talvolta gli ebrei a essere stimolo alla riflessione collettiva e cartina di tornasole della condizione socio-politica generale.
Ritornando dalla visione interna alla prospettiva esterna dalla quale sono partito, quando pensa a Yehoshua (ma anche a Oz, anche a Appelfeld) la società pensa a noi ebrei con maggior impegno e rispetto; riconosce anche come propria la condizione israeliana/ebraica, non più vissuta solo come altra ed estranea. Dimostra così un interesse genuino, che certo si esprime talvolta anche con quel benevolo cenno di intesa culturale che sopra chiamavo “occhiolino”. Un tic psicologico segno però di un atteggiamento di rispetto, importante per la società e per noi.
David Sorani