Giasone
Nel diciannovesimo Canto dell’Inferno Dante incontra i dannati per il peccato di simonia, ossia il commercio delle cose dello spirito, indebitamente sfruttate per trarre dei vantaggi personali. Un peccato, agli occhi di Dante, particolarmente odioso, in quanto comprendente tre distinte colpe, tutte molto gravi. Innanzitutto il simoniaco si arricchisce abusivamente, compiendo quindi una forma di furto o di sottrazione indebita; inoltre carpisce la buona fede del prossimo che, dal ruolo pubblico svolto dal peccatore, è indotto a credere che quello che egli fa sia fatto per il bene comune; infine, i beni di cui egli fa un uso improprio e fraudolento sono beni che dovrebbero appartenere al Signore, e solo a lui. Il simoniaco è quindi anche una sorta di traditore, e il suo tradimento è rivolto direttamente verso l’Altissimo, a cui aveva giurato fedeltà e obbedienza.
Conoscendo l’importanza che per il poeta avevano i tre valori offesi (la giustizia, la buona fede, il timor di Dio), non stupisce il profondo disprezzo che manifesta nei confronti di questi peccatori, suppliziati in un modo atroce: sono ficcati infatti con la testa in giù dentro delle buche, dalle quali esce soltanto la parte finale delle gambe. Il loro volto è nascosto, sepolto in eterno sottoterra, come le radici degli alberi. Ma questi apparenti vegetali restano uomini, e soffrono terribilmente, anche perché, come se non bastasse il castigo già descritto, sulle piante dei loro piedi arde una fiamma che li brucia, pur non consumandoli. Per l’insopportabile dolore, i dannati torcono di continuo le loro giunture, sperando, invano, di riuscire in qualche modo a lenire le loro terribili sofferenze.
Uno scenario da incubo, che è solennemente annunciato dalla violenta invettiva che apre il Canto, volta evidentemente a spiegare perché tali peccatori non meritino nessuna pietà: “O Simon mago, o miseri seguaci/ che le cose di Dio, che di bontate/ deon essere spose, e voi rapaci/ per oro e per argento avolterate,/ or convien che per voi suoni la tromba,/ però che ne la terza bolgia state” (1-6).
Il Canto è particolarmente noto, fra l’altro, perché in esso, con una delle sue geniali invenzioni artistiche, Dante trova il modo di destinare in anticipo alle pene dell’Inferno il suo acerrimo nemico Bonifacio VIII. Il papa (morto nel 1303) era ancora vico al tempo del viaggio ultraterreno (avvenuto del 1300), e quindi il poeta non lo poteva incontrare nell’Inferno. Ma il suo posto è prenotato. Dante, infatti, si rivolge a una delle anime dannate, quella del pontefice Niccolò III. Questi, in ragione della sua posizione, naturalmente, non può scorgere le fattezze del suo interlocutore, e allora pensa che colui che gli si sta rivolgendo sia lo spirito del suo successore, ossia Bonifacio VIII, che avrebbe dovuto raggiungerlo, in quanto anch’egli simoniaco. Ma Niccolò si stupisce, perché, al momento del suo ingresso nell’Inferno, gli sarebbe stata annunciata (attraverso una sorta di “libro del futuro”) la data della morte di Bonifacio, che non era ancora arrivata: “se’ tu già costì ritto, Bonifazio?/ Di parecchi anni mi mentì lo scritto” (52-53). Su questa acerrima avversione di Dante verso papa Caetani avremo ancora qualcosa da dire, nell’ambito del nostro discorso.
Quel che specificamente ci interessa, in queta sede, è la successiva invettiva profetica contro il papa Clemente V, che avrebbe governato la Chiesa dal 1305 al 1314: un “pastor senza legge” (83), anch’egli destinato a entrare nella terza bolgia, dopo Niccolò e dopo Bonifacio. Costui è indicato come un “nuovo Giasone”: “Nuovo Iasòn sarà, di cui si legge/ né Maccabei”. Il riferimento è al perfido Giasone, fratello del Sommo Sacerdote Onia – uomo invece di grande rettitudine -, che ne avrebbe preso il posto corrompendo il re siriaco Antioco IV Epifane, per poi promuovere, di concerto con questo, l’introduzione nel Tempio di costumi pagani ed ellenistici, corrompendo così la purezza della religione ebraica.
Il riferimento appare significativo per due ragioni.
Innanzitutto conferma la profonda conoscenza della Bibbia da parte del poeta, che egli frequentemente adopera come serbatoio per annotazioni e confronti, sempre molto esatti e pertinenti. E conferma, inoltre, il suo grande rispetto per la storia d’Israele, verso la quale si confronta sempre con un atteggiamento perfettamente conforme alla scala valoriale indicata dalla tradizione ebraica: come Giuda Maccabeo – come abbiamo ricordato – è collocato nel Paradiso, così il nome di Giasone (il cui spirito non è indicato nella bolgia, ma si presume che stia lì) è usato come emblema di simonia. I ‘buoni’ e i ‘cattivi’ della storia di Israele conservano, nella Commedia, l’identica reputazione. Esattamente il contrario di quanto farebbe un antisemita, che condannerebbe o schernirebbe Giuda (difensore dell’identità ebraica) e apprezzerebbe invece Giasone (suo corruttore).
Riguardo alla generale posizione di Dante nei confronti dell’ebraismo, tuttavia, il XIX Canto assume, secondo me, un’importanza essenziale soprattutto per un altro motivo, che esporrò nella prossima puntata.
Francesco Lucrezi
(22 giugno 2022)