Machshevet Israel
Buber a Firenze
Dal novembre 1905 alla tarda primavera 1906 Martin Buber trascorse con la moglie Paula Winkler (intellettuale cattolica convertitasi all’ebraismo) e i due figli Rafael ed Eva un proficuo soggiorno di studio nella città di Firenze, dapprima coltivando un vago progetto di abilitazione accademica in storia dell’arte, ben presto abbandonato, e poi concentrandosi sulla raccolta, la selezione e l’interpretazione di agiografie e di aforismi chassidici, lavorando in particolare sul Testamento del Ba‘al Shem Tov e i racconti di suo nipote Nachman di Breslav. Tale elaborazione negli anni successivi si tradusse nei due volumi divulgativi, in tedesco, che ‘sdoganarono’ e fecero conoscere il chassidismo alla cultura europea. Quel breve soggiorno toscano lasciò in lui un segno: la Firenze d’inizio secolo era un crocevia di idee e persone assai vivace; qualche lustro prima vi era passato Nietzsche, nel suo grand tour italiano, un pensatore che in quegli anni esercitò una profonda influenza su Buber, il quale nel 1904 aveva completato il suo dottorato in filosofia a Vienna con una tesi sugli umanisti Nikolaus von Kues [Niccolò Cusano, per noi italici] e Jakob Böhme.
Quelli fiorentini furono per Buber mesi di riflessione e decantazione, meglio di ri-orientamento verso i suoi effettivi interessi culturali, sballottato com’era tra i conflitti interni al movimento sionista (il giovane filosofo era stato in dissapore con il viennese Theodor Herzl, da lui considerato privo di conoscenze e di vere radici ebraiche, e con il suo luogotenente Max Nordau) e una vitalistica fascinazione con tutto ciò che sapeva di orientalismo misticheggiante. Certamente ‘a Oriente’ era il cuore ebraico della Firenze di quegli anni, a partire dall’architettura della sinagoga (in stile moresco, anzi in un sincretismo di stili asiatici) inaugurata nel 1882 e tesa a celebrare l’emancipazione degli ebrei italiani; essa era poi animata dal carismatico rabbino Samuel Hirsch Margulies, incline a un sionismo religioso, di vent’anni esatti più vecchio di Buber e come lui germanofono e galiziano (Buber era infatti cresciuto con i nonni paterni a Leopoli, oggi Ucraina ma allora impero austro-ungarico). Non è però rimasta traccia di un’eventuale interazione tra i due.
Chi ne volesse sapere di più, può leggere il bel volume di Angelo Tumminelli, Martin Buber a Firenze. Dallo studio del Rinascimento al dialogo con Giorgio La Pira (Ed. Studium, Roma 2020), il cui terzo capitolo è dedicato all’ultima visita che l’ormai anziano filosofo fece alla città medicea nel 1960 in occasione del II Colloquio Mediterraneo promosso dal famoso sindaco e studioso cattolico. Tumminelli ricostruisce con finezza il passaggio dalla fase di formazione, segnata dalla Lebensphilosophie (non solo Nietzsche ma anche Dilthey e Simmel), all’approdo maturo alla filosofia dialogica, sviluppata da Buber in costante ‘relazione’ con quel mondo vitale ebraico che egli aveva conosciuto nelle sinagoghe chassidiche di Leopoli, tra cui quella di Sadgora creata da un figlio di Israel Friedman di Ruzhin. Proprio il chassidismo, filosoficamente filtrato da una sensibilità ormai esistenzialista, diventerà nei decenni successivi la sua personale sintesi ebraica, come espressa nella famosa formula, tanto felice quanto riduttiva: “Qabbalà divenuta ethos”. Infatti, come ha spiegato il germanista Massimiliano De Villa: “Nella letteratura chassidica Buber vede riflesso il Volksgeist ebraico in un’espressione tra le più autentiche e genuine, riconoscendovi la testimonianza viva di una creatività originaria. Egli affronta l’interpretazione dei chassidim con la mente costantemente rivolta al pensiero nietzscheano, al concetto neoromantico della vita come flusso di energia che affonda le radici nella sfera del biologico e del naturale”.
Nella Firenze d’inizio Novecento Martin Buber respira ‘rinascimento’ a ogni angolo della città, allora più piccola di oggi, e trova quel termine adattissimo a catalizzare i suoi pensieri e sentimenti cultural-religiosi: da quel momento infatti inizierà a parlare di Rinascimento ebraico, legando in esso idee filosofico-politiche come comunità, ethos e Volk a concetti mistici come rinascita, slancio individuale e ritorno a se stessi. Il concetto gli servirà da mantra nel 1908-09 nei famosi discorsi al circolo sionista Bar Kochbà di Praga: “Lo chiamiamo ‘rinascimento ebraico’ perché, trasponendo il destino dell’umanità sul piano del destino nazionale, assomiglia alla grande epoca che per prima nella storia porta questo nome; perché, come quella, non significa un ritorno ad antiche forme di vita, bensì una rinascita, un rinnovamento dell’uomo intero, la via dall’incompletezza alla completezza, dal vegetare al creare, dalla rigidità dialettica della scolastica a un’ampia, viva e intensa visione della natura, dall’ascesi medievale a un caldo, fluente senso della vita, dalle costrizioni alla libertà della personalità: la via segnata da una vulcanica e informe potenzialità verso un’azione culturale armonica e vigorosa nelle sue figurazioni”. Ricordo infine che nel 1905 arrivava a Firenze, da una Gorizia a sua volta austro-ungarica, anche il giovanissimo Carlo Michelstaedter, in affannosa ricerca di aria nuova e di idee vitali, o forse solo di un’identità più forte, quell’identità che un ebraismo troppo imborghesito e assimilato – o solo in transizione? – non riusciva a dargli.
Massimo Giuliani, Università di Trento
(23 giugno 2022)