L’inverno del nostro scontento
La «morte delle ideologie» – ammesso e non concesso che si sia per davvero verificata in questi ultimi tre decenni – porta con sé la consunzione delle culture politiche. Queste ultime, rispetto alle seducente semplificazione del mondo offerta dalle prime, erano invece il carburante che alimentava – e trasformava – le identità e dava sostanza agli interessi, materiali e civili, di grandi parti delle nostre società. Di fatto, permetteva alle une e agli altri di non assumere le sembianze di guerre su temi insindacabili e non negoziabili ma di essere mediate dal sistema delle istituzioni pubbliche. Una sorta di patto sociale, quest’ultimo, che ha governato le nostre società, quelle industriali, a sviluppo avanzato, fino quasi alla conclusione del secolo da poco trascorso. Tuttavia ora non è più così. Interi segmenti della popolazione si scoprono scoperti, sia in termini di rappresentanza politica che, soprattutto, di riconoscimento e tutela dei loro diritti. Non è solo una questione di libertà, parola ricorrente e pertinente ma spesso citata a sproposito. Si tratta semmai di un problema di equità civile e, al medesimo tempo, di giustizia sociale. Senza un’adeguata integrazione tra le parti di una collettività, laddove invece le diversità si trasformano in differenze inconciliabili e poi in diffidenze irrimediabili, la coesione sociale risulta essere a rischio. Del pari, la prospettiva di una tempesta perfetta, ossia dell’unione e del reciproco rinforzo di più di elementi di destabilizzazione (economica, finanziaria, civile, ecologica) è, ad oggi, qualcosa che va oltre una semplice ipotesi di scuola. L’autunno e l’inverno a venire potrebbero riservarci sorprese poco gradevoli. Si inserisce quindi in un tale ordine di considerazioni il problema dell’affaticamento e del declino del sistema di rappresentanza democratica. Ovvero, della sua sopravveniente inadeguatezza rispetto ai tempi (e agli spazi) di una globalizzazione che, pur manifestando le sue anchilosità, tuttavia continua ad essere parte dei processi geopolitici, quindi dei sistemi di rigenerazione del potere a livello planetario. Se la democrazia non riesce più a raccogliere in sé – temperandone e moderandone quindi le spinte – le molte pulsioni che animano le nostre società, allora i rischi di involuzione sono purtroppo dietro l’angolo. Più di una volta ci siamo permessi di denunciare la natura calamitosa dell’identitarismo, ovvero di quel modo di concepirsi, e di quindi di leggere i rapporti sociali, sulla base della rivendicazione di una propria soggettività di gruppo, separabile dal contesto nel quale si interagisce fino al punto di viverla in sua totale opposizione. Si tratta di una tentazione trasversale, tale poiché attraversa le intere società, chiamando in causa non solo le minoranze come tali ma anche, e soprattutto, le maggioranze. Un fatto, quest’ultimo, tanto più pronunciato nel momento in cui queste si disintegrano, perdono il collante che le tiene assieme, vivono una crisi di reciprocità, cercando rifugio nelle caverne di una qualche “essenza”, ossia di un modo di intendersi in contrapposizione e in alternativa a tutto ciò che esula dal proprio perimetro esistenziale. Si tratta della crisi di quel legame profondo che chiamiamo con il nome di «cittadinanza». Un tale rischio è presente in qualsiasi discorso sull’identità quand’essa non sia intesa come un prodotto storico, ossia il risultato di un’evoluzione collettiva, che chiama in causa non solo se stessi ma anche gli “altri”, quanti vivono accanto a noi senza per questo essere “come noi”. A tale riguardo, la rivendicazione di un’identità come un assoluto, qualcosa di non negoziabile, una condizione totalizzante, è presente anche nel dibattito odierno che chiama in causa la cosiddetta «cancel culture». Se quest’ultima sposta l’attenzione dal modo in cui si sta assieme al “chi siamo”, intendendo quest’ultimo come il rimando, prescrittivo e normativo, ad un’appartenenza imprescindibile di certuni contro tutti gli altri, il rischio di uno sgretolamento delle regole del civile convivere è dietro l’angolo. Ed avviene con il ricorso alle «guerre culturali» (così il sociologo James Davison Hunter) che, erigendo muri identitari, abbattono le vie di comunicazione e scambio, senza le quali non c’è prospettiva alcuna. Se la politica, in età moderna e contemporanea, è la neutralizzazione della guerra armata attraverso la mediazione tra interessi contrapposti, la guerra culturale ne costituisce invece la negazione. Poiché enfatizza l’atomizzazione delle società in una arcipelago di piccole isole, che si ritengono indipendenti pur trovandosi nel medesimo mare, le une accanto alle altre. Si tratta del risultato di una miopia clamorosa, che enfatizza le proprie particolarità, quasi deformandole nell’utilizzo corrente, per usarle come clave da dare in testa agli altri. La disseminazione di percorsi identitari, e la loro rivendicazione nello spazio pubblico, non sono di per se stessi, in quanto tali, una minaccia. Lo diventano quando si sostituiscono alla consapevolezza che ognuno di noi tutti esiste non in virtù delle sue sole specificità (personali e di gruppo) ma grazie alla mediazione esercitata dalle istituzioni della cittadinanza. Oltre le quali c’è solo il vuoto dell’illusione, quello dettato dal miraggio di bastare a se medesimi, senza comprendere che dietro ad una tale ingenuità c’è l’incapacità di capire quale sia la dimensione delle asimmetrie dei poteri e dei rapporti di forza.
Claudio Vercelli