“Abbiamo curato molta gente in Ucraina Non si può essere indifferenti”
Un bambino che attraversava da solo il confine tra Polonia e Ucraina con in mano il suo peluche. A segnargli il volto le lacrime. “Quando ho visto quell’immagine mi son detto che avrei dovuto fare qualcosa per l’Ucraina. Inconcepibile immaginare quei bambini privati delle proprie sicurezze e della fiducia nel mondo”. Da qui è nata la convinzione di Amnon Shmoshkovitz, medico israeliano specializzato in Otorinolaringoiatra, di dover fare qualcosa di concreto. “Non sapevo come. Poi in una conferenza di medici ad Eilat una dirigente della mutua Maccabi mi ha riconosciuto. Si è avvicinata e mi ha chiesto se volevo partire come volontario per lavorare nell’ospedale da campo che Israele stava mettendo in piedi in Ucraina. In quindici minuti ero già parte della delegazione”. In pochi giorni, racconta Amnon a Pagine Ebraiche, con un passato da studente di medicina a Padova, la missione è stata preparata. “Sono rimasto stupito dell’efficenza e della cura per ogni dettaglio. È stata la prima volta che ho visto con i miei occhi che quando uno Stato vuole raggiungere un obiettivo, può farlo e in poco tempo”. Oltre ai briefing sulla situazione medica, i volontari in partenza hanno ricevuto una preparazione e aggiornamenti sulla complicata questione della sicurezza. Quando l’ospedale è stato inaugurato a Mostyska, a circa 50 chilometri a ovest di Leopoli, l’invasione russa dell’Ucraina era iniziata da un mese. Per sei settimane la struttura, intitolata “Kohav Meir” (Stella splendente, un gioco di parole con il nome dell’ex primo ministro israeliano Golda Meir, di origini ucraine), ha curato migliaia di pazienti. “Da noi non arrivavano feriti di guerra, ma profughi in fuga dal conflitto e abitanti delle zone vicine. Ho sentito che qualcuno ha cercato di polemizzare su questo, ma mi chiedo come si faccia a criticare chi almeno prova ad aiutare”, spiega il medico israeliano. Delle polemiche, aggiunge, quando era a Mostyska non c’era il tempo di curarsi. “Eravamo 80 tra medici e infermieri, oltre allo staff organizzativo. La stragrande maggioranza dei colleghi praticamente non la conoscevo, ma in quelle settimane si è creato un affiatamento difficile da spiegare. Sembravamo amici da una vita, la collaborazione ha sempre funzionato alla perfezione. Sono venuti luminari da Harvard, dal Soroka. Un chirurgo di fama internazionale ha sentito dell’iniziativa israeliana ed è arrivato apposta dall’Australia. È stata un’esperienza incredibile”. L’ospedale disponeva di 150 posti letto nei reparti di emergenza, pediatrico, ostetricia e ginecologia. Era diviso in dieci tende all’aperto, con una scuola riconvertita come alloggi per il personale e alcune aule come sale per i degenti. Il flusso degli arrivi di pazienti, bambini e adulti, è stato costante. “Non c’era tempo di fermarsi, ma non ho mai sentito nessuno lamentarsi. Per alcuni casi più complessi ho chiamato i miei colleghi in Israele, ma anche in Italia, è tutti mi hanno dato una mano”. È il caso, racconta, di una bambina di tredici anni con la cheiloschisi (labbro leporino). “Aveva già subito un’operazione, ma non era andata bene. E il suo volto poverina era sfigurato. Ho chiamato in Israele, ma mi hanno detto che c’era poco da fare. Allora ho sentito un amico chirurgo maxilofacciale italiano, conosciuto a Padova. Dopo un’ora e mezza aveva già organizzato l’arrivo della bambina in Italia, tutto spesato, per avviare l’iter per fare diverse operazioni. In cinque, sei giorni sono stati procurati i permessi, si è lavorato anche per il passaggio dall’Ucraina alla Polonia e poi per l’arrivo nell’ospedale italiano”. Tutto è andato bene, la bambina dovrà ancora subire delle operazioni, “ma credo che ora la sua vita sarà più felice”.
Tra i medici presenti, racconta Amnon, una persona aveva la propria madre a Mariupol. “Non posso dare molti dettagli per questioni di sicurezza. Ma questa persona lavorava ormai da tempo in Israele, mentre la madre aveva deciso di rimanere in Ucraina. Con l’invasione e l’inizio degli attacchi su Mariupol, i contatti si erano interrotti. Questa persona ha raccontato tutto a noi dell’ospedale. Bene. Non so come, una mattina, prima di cominciare la giornata lavorativa, si è fermata una macchina. È scesa una donna con un sacchetto di plastica e dentro una piccola cagnetta. Si vedeva che quello era l’unica cosa che aveva ancora al mondo. Ha cominciato a urlare e piangere. Era sotto shock. Non sapeva che sarebbe stata presa e portata in salvo. Era la madre in questione che poi è tornata con noi in Israele”.
Oggi, sottolinea Amnon, i rapporti con chi ha curato non si sono interrotti. Sta ad esempio cercando di portare in Israele un uomo di Mariupol che deve subire una complicata operazione. Ha poi promesso di portare alcune studentesse di medicina ucraina a fare uno stage con lui. “C’è molto che si può ancora fare per loro. Da qui è più difficile e la situazione per l’Ucraina continua ad essere tragica. Ma anche se il tempo passa, non possiamo rimanere indifferenti”.
Daniel Reichel