La magia di Wimbledon,
il sogno infanto di Berrettini
e l’impresa dell’autodidatta Savitt

L’estate magica dello sport azzurro, l’indimenticabile luglio-agosto 2021, ha visto l’Italia protagonista di imprese memorabili ai Giochi olimpici di Tokyo. Ma è stata anche l’estate in cui un tennista italiano, Matteo Berrettini, è arrivato dove mai nessun connazionale era riuscito prima di lui: la finale di Wimbledon, poi persa con Djokovic al termine di una sfida comunque tirata e appassionante. Il forte atleta romano voleva riprovarci quest’anno e a detta di molti sembrava avere il vento in poppa: a fermarlo, notizia di poche ore fa, è stato purtroppo il Covid. Piani di gloria temporaneamente rimandati, almeno di dodici mesi. Una scorsa all’albo d’oro del torneo, il più prestigioso al mondo, parla da sé: per entrare nella Storia del tennis, per lasciare un segno indelebile, da qui bisogna passare. L’hanno fatto tra gli altri i tre giganti (“Big Three”) di questa generazione: Roger Federer (8 volte), Rafa Nadal (2) e per l’appunto Djokovic (5).
Nella vicenda lunga 145 anni di Wimbledon ci sono imprese che hanno dell’incredibile. Poco ricordata ma senza eguali quella riuscita allo statunitense Dick Savitt, classe 1927, che vinse nel ’51 sull’australiano Ken McGregor da totale autodidatta, senza aver mai preso una singola lezione di tennis in vita sua.
Talento versatile capace di farsi valere anche in altri sport, Savitt scopre il tennis in piena adolescenza. Se ne appassiona e ne apprende i rudimenti in solitaria, senza bisogno di maestri né guide. Si potrebbe immaginare un fiasco e invece quel suo particolare approccio sarà il segreto per una carriera breve ma straordinaria, caratterizzata dal successo a Wimbledon e dalla vittoria, nello stesso trionfale anno, degli Australian Open. Risultati che l’avrebbero catapultato al vertice del ranking mondiale e dell’attenzione mediatica. Al punto da portarlo, primo atleta ebreo nella storia, sulla copertina del Time. Un traguardo anch’esso non convenzionale in quell’America ancora segnata da un certo pregiudizio e dove in alcuni club non si permetteva l’iscrizione agli ebrei. “Ho giocato molto a Central Park e anche sui campi in terra battuta della 96esima strada. Conoscevo il ragazzo che li gestiva, quindi sapeva già a che ora sarei arrivato per tenermi da parte il campo. Non ho mai dovuto aspettare. Molte persone mi guardavano giocare” ha raccontato Savitt in una recente intervista con il New York Times, che l’ha incontrato nel suo appartamento nella Grande Mela.
Anche dopo il ritiro Savitt non ha mancato di eccellere in altri scenari e circostanze. Come le Maccabiadi del 1961, dove si è aggiudicato l’oro sia nel singolo che nel doppio. Prezioso inoltre il suo contributo per far crescere il movimento tennistico israeliano, ancora pionieristico. Una traiettoria di vita che trova risalto nel libro “The Big Book of Jewish Sports Heroes: An Illustrated Compendium of Sports History and The 150 Greatest Jewish Sports Stars”. Peter S. Horvitz, l’autore, l’ha collocato al nono posto della graduatoria.

(Nell’immagine Dick Savitt, vincitore a Wimbledon nel 1951)

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(28 giugno 2022)