Letture superficiali

Per carattere, e per vizio professionale, ho sviluppato nel corso degli anni una ineradicabile idiosincrasia per i giudizi superficiali, specie se applicati alla critica di un testo. E il testo può essere letterario o, banalmente, lo stesso tuo prossimo in carne e ossa. Più le cose sono complesse – e si parla tanto di complessità, ai nostri giorni – più si ha fretta di sparare giudizi, rapidi e irriflessi, senza pensarci su tanto. Giudizi rapidi e, malauguratamente, definitivi. Prevale il bisogno di prendere parte immediata nella trincea delle idee. La vita corre, e non c’è tempo per fermarsi ad analizzare il dettaglio, altre opzioni, considerando le cose con un po’ di sano distacco.
Se poi il testo su cui sparare giudizi è il Mercante di Venezia, allora la mente va a nozze: niente di più facile e opportuno per dare sfogo alla corrività del giudizio. Povero Shakespeare!
Soffro in modo indicibile quando apprendo di una nuova messa in scena del Mercante. Ho sofferto tanti anni fa con Mario Scaccia, ho sofferto con Valerio Binasco, e penso che soffrirei non poco con Franco Branciaroli nella sua impresa di questi giorni, se è vero che ha detto al Corriere della sera (26 giugno 2022): “per gustarne il contenuto bisogna essere razzisti”. Shylock visto, una volta di più, come il ‘villain’, il malvagio, anziché come vittima di una società e di un sistema e di una cultura; Shylock visto ancora una volta come il ‘comico’, anziché come il tragico destinato alla sconfitta da una civiltà che civiltà forse non è. Shylock che ‘accetta di convertirsi’, anziché Shylock che è ‘costretto dalla società a convertirsi’ per sopravvivere.
Insomma, si continua imperterriti sulla scia delle letture superficiali, eliminando il testo dagli infiniti significati che vanno in altra direzione. La lettura si sottrae ai mille indizi che segnano un percorso di lettura sottile e ironico completamente diverso. Una società cristiano-veneziana (londinese?) che vede solo denaro, una società che non sa, essa stessa, che cosa sia la misericordia e il perdono. Dice Branciaroli: “gli ebrei non sono come i cristiani che possono perdonare”. Il Mercante di Venezia, a volerlo leggere non da cristiani, o non da razzisti, come dice l’attore, dice ben altro, basta volerlo leggere. La società cristiana di Venezia fa cadere il diverso nella sua trappola e lo tratta esattamente come si merita il diverso in una società che non accetta l’alterità.
Mi spiace dover citare me stesso. Me ne vergogno, ed è una cosa che un critico non dovrebbe mai fare in tutta la sua vita: è gigionesco, è narcisistico, ed è insopportabile. Ma Branciaroli, oltre al grandissimo Harold Bloom, che non era affatto “ebreo ortodosso”, ma che soffriva (un po’ come tutti noi) del complesso dell’ebreo perseguitato insofferente della persecuzione, avrebbe dovuto leggere anche qualche saggio più recente sui significati sottesi, ma ben presenti, del Mercante di Venezia. Internet ne offre facilmente le tracce, e il sito dell’università Ca’ Foscari di Venezia, in particolare.
Ogni tanto le interpretazioni vanno riviste. Non aggiornate, non revisionate nel senso deteriore deformante, ma riviste nel senso di approfondite, ricercate con rigore, con intelligente pazienza e acribia fra i risvolti linguistici e nell’azione complessiva del testo.
Si tratta in breve, di leggere il Mercante non da cristiano vincitore, non dalla parte del potere e del sopruso, non dalla parte di chi manipola e distorce, ma dalla prospettiva dell’ebreo irretito, strumentalizzato, schiacciato e sconfitto. Leggere il testo non dalla prospettiva del persecutore, ma da quella della vittima.
E magari evitare di ritornare all’antico e deleterio ritornello antigiudaico della libbra di carne come metafora della carne di Cristo!

Dario Calimani, anglista

(28 giugno 2022)