Periscopio – L’occasione mancata

Nella scorsa puntata di questa rassegna su Dante e gli ebrei abbiamo trattato del XIX Canto dell’Inferno, dedicato alla punizione dei simoniaci, dove è evocata la figura di Giasone, che usurpò il ruolo di Sommo Sacerdote per corrompere la purezza della religione ebraica, asservendo il Tempio a culti e interessi stranieri. Questo Canto, a mio avviso, è di grande importanza ai fini di un apprezzamento dell’attualità del pensiero di Dante, specificamente ai fini del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo.
Come abbiamo avuto modo più volte di constatare, il poeta, pur riflettendo passivamente alcuni stereotipi antisemiti che facevano parte da secoli delle credenze teologiche dominanti – in primis, quello della distruzione di Gerusalemme come punizione collettiva per il cd. ‘deicidio’ -, non mostra mai alcuna animosità personale verso il popolo e la religione ebraici, ai quali riserva invece sempre costante ammirazione. Come abbiamo detto, è da presumere che, secondo la sua visione, non solo gli ebrei vissuti prima dell’era volgare – che lo abbiano meritato – siano saliti in Paradiso, ma anche quelli venuti dopo. E ciò rappresenta senz’altro qualcosa di assolutamente nuovo e originale nella teologia cattolica del suo tempo (e, in una certa misura, anche di oggi).
Ma, al di là di questo, Dante è ‘oggettivamente’ filoebraico per un altro, fondamentale motivo, ossia per il fatto che la sua concezione della Chiesa e del cristianesimo – decisamente in controtendenza rispetto a quelle prevalenti – era quella che meglio avrebbe permesso al popolo ebraico di vivere in pace e armonia nelle società cristiane. Se il pensiero di Dante avesse prevalso, non sarebbero accadute le tante violenze, vessazioni e crudeltà accadute nei secoli successivi. Ma così non è stato, ed è successo quello che è successo. La Chiesa, e l’intero Occidente, rifiutando Dante, hanno perso una grande occasione. Anzi, per la precisione, due.
La prima “occasione mancata” possiamo indicarla nel rifiuto del concetto di ‘laicità’. Tale valore, com’è noto, è di origine moderna, e ancora oggi viene interpretato in molti modi diversi. La parola non compare mai nella nostra Costituzione repubblicana, ma è assurta a “principio supremo” della stessa, non suscettibile di revisione costituzionale, ad opera della famosa sentenza costituzionale 12/4/1989, n. 203, detta “sentenza Casavola” dal nome del suo relatore, il grande giurista, mio amatissimo Maestro, Francesco Paolo Casavola. Questa sentenza spiega, in modo decisamente innovativo, che la laicità non è indifferenza dello Stato di fronte alla religione, ma suo intervento attivo affinché ciascuno possa praticare il proprio credo, o professare la propria non credenza, in assoluta libertà e al riparo da qualsiasi imposizione o prevaricazione. Se anche in uno Stato tutti, tranne uno, praticassero la stessa fede, quell’unico dissenziente dovrebbe essere protetto nel suo diritto di restare se stesso. E, affinché ciò sia possibile, è ovvio che lo Stato, di per sé, non deve, non può fare nessuna opzione di tipo religioso.
Gli ebrei, per quasi due millenni, hanno sempre vissuto come piccole minoranze tra larghe maggioranze di persone che seguivano un’altra fede (in genere, cristiana o islamica), e non c’è bisogno di ricordare che essi hanno sempre vissuto meglio o peggio a seconda di quanto il Paese che li ospitava imponeva un dato credo – o, quanto meno, discriminava in base allo stesso – o, invece, faceva propri, almeno in qualche misura, alcuni elementi, sia pure non dichiarati, di laicità. Negli stati confessionali – a partire, ovviamente, da quello pontificio – gli ebrei sono sempre stati, nel migliore dei casi, dei cittadini di serie B, e non avrebbe potuto essere altrimenti.
Ciò era un destino ineluttabile? Secondo Dante, no, come espresso nel celebre grido di dolore relativo alla nascita del potere temporale della Chiesa, considerato, dal poeta, sorgente di infinite sciagure: “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre!” (Inf. XIX. 115-117). Il riferimento è alla leggenda della donazione di Costantino, che avrebbe regalato al papa la terra per edificare un proprio regno terreno. La conversione di Costantino, secondo il poeta, fu una cosa buona, ma quel regalo generò solo disgrazia, e non solo perché rese il padre della Chiesa ‘ricco’, ma soprattutto perché inquinò la purezza delle questioni di fede con la bassezza degli interessi terreni.
Questi versi, secondo me, rappresentano una pietra miliare del concetto di laicità, nel profondo Medio Evo, molti secoli prima delle Rivoluzioni Americana e Francese e delle moderne Costituzioni democratiche. E non è un caso, credo, che il Professore Casavola, padre della ricordata sentenza, sia, tra l’altro, un profondo conoscitore e amante di Dante.
Ma quel monito, quel grido di dolore, è rimasto inascoltato. La prima delle due “occasioni mancate”.
Della seconda parlerò nella prossima puntata.

Francesco Lucrezi